Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10)

Lettera di fra Timothy Radcliffe, Maestro dell’Ordine, 1998

Quando S. Domenico diede l’abito ai frati, promise loro «il pane della vita e l’acqua del cielo». Se vogliamo essere predicatori di una parola che dà la vita, dobbiamo trovare il pane della vita nelle nostre comunità. Esse ci aiutano a fiorire o soltanto a sopravvivere?
Poco dopo essere entrato nell’Ordine, la mia Provincia tu visitata da fra Aniceto Fernàndez, allora Maestro dell’Ordine. Egli mi fece solo una domanda, quella tradizionale di tutti i Visitatori: “Sei felice?”. Mi sarei aspettato qualche domanda più profonda, sulla predicazione del Vangelo oppure sulle sfide che la Provincia doveva affrontare. Mi rendo conto ora che questa è la prima domanda che dobbiamo porre ai nostri confratelli: “Siete felici?”. C’è una felicità, nel vivere da Domenicano, che è la sorgente della nostra predicazione. Non è una illimitata allegria, né un’inarrestabile bonarietà. È una felicità che include la capacità di rattristarsi. Una felicità che può anche non esserci per un po’ di tempo, o anche a lungo. È come un assaggio di quell’abbondanza della vita che noi predichiamo, la gioia di coloro che hanno cominciato a condividere la vita stessa di Dio. Dovremmo essere capaci di sentirne il diletto perché siamo figli del Regno. «Il diletto è il carattere intrinseco della vita beata e della vita che, per un dono dello Spirito Santo, è sulla via della beatitudine». Quando eleviamo un canto a S. Domenico, concludiamo pregandolo: «Nos iunge beatis» (Congiungici ai beati). Ci auguriamo di poter partecipare ora a un barlume della loro felicità in Cielo.
Se vogliamo costruire comunità nelle quali vi sia abbondanza di vita, allora bisognerà riconoscere che cosa significa per noi essere vivi, come uomini e donne, come fratelli e sorelle, e come predicatori.
Non siamo angeli. Siamo esseri dotati di passioni. Questa è la natura che la “Parola di Vita” ha accettato quando ha assunto la natura umana. Noi non possiamo essere da meno. Il cammino verso la santità comincia da qui.
Però siamo stati creati da Dio a sua immagine, destinati all’amicizia con Lui. Siamo capax Dei, affamati di Dio. Vivere significa per noi imbarcarci nell’avventura che ci conduce verso il Regno.
Abbiamo bisogno di comunità che ci sostengano nel cammino. Il Signore ha promesso: «Vi toglierò il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36, 26). Abbiamo bisogno di fratelli e sorelle che stiano con noi quando i nostri cuori sono affranti e inteneriti.
Ogni persona saggia ha sempre saputo che non c’è un cammino che conduce alla vita, che non passi attraverso il deserto. Il viaggio dall’Egitto alla Terra Promessa passa attraverso il deserto. Se vogliamo essere felici e pieni di vita, dobbiamo percorrere quella strada. Abbiamo bisogno di comunità che ci accompagnino in quel viaggio e ci aiutino a credere che, se il Signore conduce Israele nel deserto, è perché Egli «possa parlargli teneramente» (Os 2,16). Forse per questo tanti hanno lasciato la vita religiosa durante gli ultimi trent’anni: non perché essa fosse più dura di prima, ma perché abbiamo perso di vista il fatto che le notti oscure fanno parte della nostra rinascita come di persone che vivono con la gioia del Regno. Così le nostre comunità dovrebbero essere non soltanto “luoghi” nei quali solamente sopravvivere, ma posti dove trovare cibo per il nostro cammino.
Per usare una metafora le comunità religiose sono come un sistema ecologico, fatte apposta per sostenere strane forme di vita. Una rana di una rara specie ha bisogno di un appropriato ecosistema per prosperare e riuscire a riprodursi, dalle uova ai girini sino alle rane adulte, nonostante tutte le difficoltà. Se la rana è minacciata di estinzione, allora si deve costruire per essa un ambiente appropriato, con il cibo, gli stagni e il clima adatto nel quale essa possa prosperare. Anche la vita domenicana richiede il suo ecosistema appropriato, se vogliamo viverla pienamente e predicare una parola di vita. Non basta parlarne; dobbiamo progettare e costruire attivamente tali ecosistemi domenicani.
Questa è, innanzitutto, la responsabilità di ciascuna comunità. Sta ai fratelli e alle sorelle che vivono insieme creare comunità nelle quali possiamo non solo vivere ma prosperare, offrendo gli uni agli altri «il pane della vita e l’acqua del cielo». E questo lo scopo principale del “progetto comunitario” proposto dagli ultimi Capitoli Generali. Questo potrà avvenire se avremo il coraggio di parlarci di quello che ci sta più a cuore come esseri umani e come Domenicani. (…)

La Vita Apostolica

La vita domenicana è in primo luogo apostolica. Questo può essere inteso nel senso che un buon Domenicano è sempre occupato, impegnato in vari “apostolati”. Eppure la vita apostolica non è tanto ciò che facciamo quanto quello che siamo, e noi siamo chiamati a «vivere la vita degli Apostoli nella forma concepita da San Domenico».74 Quando Diego incontrò i delegati Cistercensi mandati a predicare agli Albigesi, disse loro: «Andate con umiltà seguendo l’esempio del nostro amoroso Maestro, insegnando e facendo quello che insegnate, viaggiando a piedi senza argento né oro, imitando in tutto la vita degli apostoli».75 Essere apostoli significa avere una vita, non un lavoro.
E la prima caratteristica di questa vita apostolica è quella di condividere la vita del Signore. Gli apostoli sono coloro che lo accompagnarono «per tutto il tempo che il Signore visse in mezzo a noi» (At 1, 21). Essi furono chiamati da lui, camminarono con lui, lo ascoltarono, riposarono e pregarono con lui, conversarono con lui, e furono inviati da lui. Essi condivisero la vita di colui che è l’Emanuele: “Dio con noi”. Il culmine di quella vita fu la condivisione dell’Ultima Cena, il sacramento del pane della vita. Anche se uno di loro se ne andò ben presto, perché aveva “troppo da fare”.
La vita apostolica, perciò, vale per noi più che i vari apostolati che compiamo. Yves Congar scrisse che la predicazione è una «vocazione che ha la sostanza della mia vita e del mio essere». Se le esigenze del nostro apostolato ci impediscono di avere il tempo per pregare e mangiare coi nostri fratelli, per vivere insieme a loro, allora, per quanto impegnati possiamo essere, non saremo apostoli nel vero senso della parola. Meister Eckhart scrisse:”Le persone non dovrebbero preoccuparsi tanto di quello che dovrebbero fare, bensì piuttosto di quello che dovrebbero essere. Se noi e i nostri modi sono buoni, allora quello che facciamo sarà splendido”.
Ma questa vita apostolica ci lacera. È questa la sofferenza e la sorgente della sua fecondità: Perché la Parola di Dio, la cui vita gli Apostoli condividono, si spinge fino a raggiungere tutto quello che è più lontano da Dio e lo abbraccia. Secondo Eckhart la Parola resta “una col Padre” mentre trabocca nel suo ardore dentro il mondo. Niente di umano le è estraneo. La vita di Dio si schiude e si espande per creare uno spazio per tutto quello che noi siamo: diventa come noi, in tutto fuorché nel peccato. Egli prende su di sé i nostri dubbi e timori; entra dentro la nostra esperienza di assurdità: quel deserto nel quale si perde ogni significato.
Sicché per noi vivere la vita apostolica pienamente equivale ad accorgerci che anche noi siamo del tutto aperti e disponibili. Esser un predicatore non è soltanto raccontare alla gente qualcosa su Dio. È portare dolorosamente nell’intimo della nostra vita la distanza che c’è tra la vita di Dio e quella che è molto lontano da lui, estraniata da lui e ferita. Noi possiamo offrire una parola di speranza solamente se riusciamo a gettare uno sguardo dentro il dolore e la disperazione di coloro ai quali predichiamo. Non possiamo avere parole di compassione se non riconosciamo in qualche modo che le loro mancanze e tentazioni sono anche le nostre. Non possiamo avere parole di compassione se non riconosciamo in qualche modo che le loro mancanze e tentazioni sono anche le nostre. Non possiamo avere parole che danno significato alla vita della gente, a meno che non siamo toccati noi stessi dai suoi dubbi e non gettiamo uno sguardo nell’abisso in cui si trova. (…)

La Vita Affettiva

Tutta la vita apostolica è una partecipazione a quell’amore redentivo di Dio per l’umanità. Se non è così, nel migliore dei casi la nostra predicazione sarà un lavoro; e nel peggiore l’esercizio di una manipolazione degli altri, la propagazione di una ideologia. (…) Cosicché, per restare vivi, abbondantemente vivi come predicatori, bisogna scoprire come amare rettamente: “La mia vocazione è l’amore” scriveva santa Teresa di Lisieux. Per noi Domenicani imparare ad amare è inseparabile dall’essere coinvolti nel mistero della redenzione divina dell’umanità. Questa è la nostra scuola d’amore. (…)

Amare l’umanità può essere molto bello ma può sembrare; un surrogato pallido e astratto di quell’amore profondo e personale del quale a volte siamo affamati. E quell’amore allora è davvero sufficiente? Questo possiamo sentirlo soprattutto nella società contemporanea, nella quale il modello dominante dell’amore è l’appassionato amore sessuale tra un uomo e una donna. Quando sentiamo questo pressante bisogno, possiamo allora essere soddisfatti dall’amore verso l’umanità?
Questo amore sponsale appassionato è effettivamente un profondo bisogno umano. Può essere anche un’immagine della nostra relazione con Dio, come per esempio nei commenti medievali del Cantico dei Cantici. Ma c’è un’altra tradizione complementare, che forse è più tipicamente domenicana. Essa è al centro del Vangelo di S. Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici». Questo è l’aspetto che ha il mistero dell’a- more: uno che dona la sua vita per i suoi amici. C’è un amore profondamente appassionato nella relazione di Gesù coi suoi discepoli, con le prostitute e i pubblicani, i malati e i lebbrosi, e perfino con i Farisei. È una passione che si consuma sul Golgota. E quella non è appassionante come una qualunque avventura amorosa?
Può darsi che la nostra società trovi incomprensibile la nostra maniera di amare, poiché, a quanto pare, abbiamo rifiutato l’esperienza specifica dell’amore: l’unione sessuale “con l’altro”. Possiamo talvolta avvertirlo noi stessi il fatto che ci siamo persi [“la grande esperienza”, e che non la abbiamo vissuta. Ma S. Tommaso d’Aquino ha insegnato che nel cuore di Dio, che è amore c’è l’amicizia, l’inesprimibile amicizia del Padre e del Figlio che è lo Spirito Santo. Vivere per noi, diventare vivi in maniera inesprimibile, è essere di casa in quell’amicizia ed essere trasformati in essa. Questo traboccherà su tutto ciò che facciamo e siamo. Come ha scritto Don Goergen, o.p.: «Il celibato non rende nessuna testimonianza. Ma il celibe sì».Noi testimoniamo il Regno se mostriamo chiaramente che siamo persone cui vita è stata liberata dalla castità.
Le nostre comunità dovrebbero essere scuole di amicizia. In punto di morte Giacinto ripeteva ai confratelli le parole di S. Domenico: «Abbiate bontà e gentilezza (dulcedo) di cuore. Conservate l’amore di Dio e la carità fraterna». Siamo noi abbastanza buoni e cordiali gli uni verso gli altri? Nella vita religiosa c’è stato spesso un certo timore verso l’amicizia, ma forse essa non è stata tanto presente nella tradizione domenicana. Fin dall’inizio dell’Ordine ci sono state delle amicizie profonde: quella di S. Domenico verso i suoi confratelli e consorelle, di Giordano di Sassonia verso la sua diletta Diana e verso Enrico, di Caterina da Siena verso Raimondo da Capua. Mi ricordo che un vecchio domenicano disse, in Capitolo, quand’io ero ancora giovane: «Non ho niente contro le amicizie particolari; è alle inimicizie particolari che mi oppongo»! Questa amicizia non è mai esclusiva; è invece profondamente trasformante: essa libera dolorosamente e lentamente da ogni spirito di dominio e di possesso, da ogni aria di superiorità e di alterigia. Se è una partecipazione alla vita della Trinità, sarà allora un amore che innalza l’altro rendendolo uguale e libero. Bede Jarrett, il Provinciale della Provincia di Inghilterra, scrisse nel 1932: «Oh, che dono di Dio è una cara amicizia! Non parlarne male. Loda, piuttosto, il suo Fattore e Modello, il Santo Tre-in-Uno». Se è davvero un’amicizia che viene da Dio, essa ci spingerà alla missione di predicare la Buona Novella.
Il culmine del nostro amore sarà la spogliazione. Dobbiamo lasciare liberi quelli che amiamo, lasciarli essere se stessi! Il mio amore per l’altro gli dà la libertà di vivere la sua vita e mi lascia libero di dedicarmi alla missione dell’Ordine? L’amore che nutro per questa donna, ad esempio, l’aiuta a crescere nell’amore verso suo marito, o sto cercando di legare la sua vita alla mia e di renderla dipendente da me? Questo doloroso ma liberatorio distacco ci invita a renderci “periferici” alla vita di quelli che amiamo. Dovremmo accorgerci che noi non siamo al centro della loro vita, così che essi ci dimenticano e sono liberi per qualcun altro, liberi per Dio. Questa può essere la cosa più difficile di tutte, ma io credo fermamente che essa può procurarci più gioia di quanto possiamo descrivere e immaginare. E il momento in cui il nostro costato rimane aperto perché da esso possa fluire l’acqua della vita.
Un bell’esempio nella nostra tradizione domenicana è sicuramente quello dell’amore tra il Beato Giordano di Sassonia, successore di S. Domenico come Maestro dell’Ordine, e la monaca domenicana Beata Diana degli Andalò. È cosa nota che si amavano profondamente. Quanti Maestri dell’Ordine hanno scritto con tale apertura d’animo a una donna? «Non sono forse sempre tuo? Io sono sempre con te; sono tuo nel lavoro e nella quiete, tuo quando sono presente e quando sono assente». Ed è chiaro che essa gli aveva insegnato molto sul modo di amare. Ma nelle sue lettere Giordano la dona sempre al Signore. Egli è l’amico dello Sposo, il cui compito è quello di condurre la sposa allo sposo: «Mia carissima, sii fiduciosa e serena in tutto e quello che ti manca a causa della mia assenza, non potendolo avere altrimenti, procuratelo presso il migliore amico, il tuo Sposo Gesù Cristo che puoi avere presente con maggior frequenza in spirito e verità e che ti parlerà con maggior sapienza e soavità di quanto potrei fare io».
Dobbiamo essere spogliati, in un certo senso, anche delle nostre famiglie. Certo che ameremo i membri della nostra famiglia e ci rallegreremo del loro amore per noi, ma una volta fatta la professione nell’Ordine dobbiamo essere liberi di andare dove la missione dell’Ordine ha bisogno di noi, anche se fosse lontano da dove essi abitano. Questo fa parte della nostra povertà. Noi apparteniamo prima di tutto all’Ordine e alla predicazione del Vangelo.