Riportiamo di seguito l’omelia che il padre provinciale Daniele Drago op ha pronunciato per la festa di san Tommaso d’Aquino, Giovedì 7 marzo 2024, a 750 anni esatti dalla morte del Dottore angelico (avvenuta il 7 marzo 1274).

La celebrazione odierna incrocia diversi cammini: l’itinerario della Chiesa nel suo percorso quaresimale, il cammino accademico ed esistenziale di ciascuno qui convenuto e i passi sempre più spediti e sofferti di Cristo verso Gerusalemme, ritratti nello squarcio narrativo lucano presentatoci oggi dalla Liturgia della Parola. In questo nostro intrecciarsi di sentieri, orientati all’unica meta che è Cristo (cf. Fil 3,14), siamo illuminati dalla secolare e numinosa sapienza del Doctor Angelicus. Desideriamo venerarne la memoria e invocarne l’intercessione per questa Pontificia Università, i suoi alunni e i suoi docenti e chi vi lavora a vario titolo.

Inoltre, qui a Roma, il giovedì della III settimana di Quaresima corrisponde alla stazione quaresimale ai Santi Cosma e Damiano, venerati nell’omonima Basilica ai Fori Imperiali, poco distante. In essa sono custodite le reliquie dei cosiddetti santi anargiri, dal greco anargyroi, ossia «senza denaro». Infatti, questi santi martiri bizantini si dedicarono alla cura gratuita non soltanto dei poveri ma anche dei viandanti.

Così, anche noi umili viatores nel nostro percorso di fede, protetti dall’intercessione di San Tommaso d’Aquino e dai santi della liturgia stazionale di oggi, desideriamo addentrarci, seppur brevemente, nel palesare l’intersecarsi delle letture della Liturgia odierna con la persona e l’insegnamento del Santo Patrono di questa stimabile Università.

Quale ulteriore celere premessa, permettetemi soltanto di condividervi in una frase non soltanto la gratitudine per avermi invitato a presiedere questa celebrazione eucaristica, ma anche la personale piccolezza nell’accingermi in tale consesso a venerare con impegnativa sintesi l’ampissima figura dell’Aquinate. Un mio predecessore, al tempo Priore provinciale della Provincia Utriusque-Lombardiae confidenziava nel suo diario: «se non predico io sono nulla, se predico sento il mio nulla».[1] Desidero fare mie queste parole autenticamente domenicane condividendovi in semplicità ciò che il Signore ha ispirato al mio cuore sacerdotale nella rifrazione della Sua Parola.

L’intera Liturgia Verbi odierna appare concentrarsi in due polarità: l’ascolto e il rifiuto. All’interno del contesto sacrificale d’Israele, ormai lontano dall’originario comando di Jhavè, con il linguaggio antitetico e radicale proprio alla letteratura semita, Geremia invita il popolo a ravvedersi. L’ostinazione del cuore malvagio nasce dal rifiuto dell’ascolto del primo ordine di Dio: «Ascoltate la mia voce e io sarò il vostro Dio e voi sarete mio popolo» (Ger 7,24a). L’inaccoglienza della voce divina comporta la negazione della sua appartenenza. Ciò trova ulteriore conferma: «camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici» (Ger 7,24b). Non si tratta di un ascolto puramente passivo. Al contrario, il verbum di Dio è intrinsecamente azione nel tempo in avvenimento, predicata primariamente nel cuore dell’uomo o, meglio, al suo intelletto. Dunque, come il verbum mentis nell’ordine intellettivo produce l’atto dell’intellezione, il Verbo divino sempre in atto si propone all’anima nella sua perfetta unità.[2] Completano le parole del salmista, «una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 63,12), a indire la natura discorsiva del verbo umano. In essa, nel nitido splendore dell’opus gratiae, la Parola di Dio accolta ruminata e celebrata nella complessità esistenziale di ciascuno ispira i variegati e imprevedibili sentieri della volontà di Dio. Già questo basterebbe ad aprire l’orizzonte riflessivo all’antropologia tomista, capace di rispondere alla domanda piena di stupore dell’orante: «cos’è l’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,5). Indagare l’uomo nella sua unità di anima e di corpo, concependolo integralmente, ponendo in dialogo la natura, oggetto proprio della filosofia, con la comprensione della rivelazione divina, cuore della teologia.[3]

«Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici» (Ger 7,24b) era la profezia divina rifiutata da Israele, denuncia Geremia. I sentieri sviati e distorti del peccato attendevano con trepidazione la grazia cristica, liberatrice e redentiva che li avrebbe orientati nuovamente alla salvezza, plurime volte anticipata nei typos veterotestamentari, anticipazioni del mistero pasquale di Cristo che gli evangelisti avrebbero poi palesato, illustrando il compimento della historia salutis, di cui siamo partecipi nella liturgia, nei sacramenti.[4]

D’altronde, la premura assidua di Dio, fin dall’uscita dall’Egitto, ha suscitato i profeti per vincere la sordità del popolo incontrando il fallimento, poiché, dichiara Geremia: «la fedeltà è sparita, è stata bandita dalla loro bocca» (Ger 7,28).

A quale fedeltà allude il profeta? Potremmo affermare chiaramente trattarsi della fedeltà a Dio. Lo stesso Dio è fedeltà in quanto Dio è Verità (cfr. 2Sam 7,28). Lo testimonia San Paolo, «se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso» (2Tm 2,13). Nella fedeltà si specchia la verità, in una luminosa trasparenza d’amore eterno ben riflessa negli occhi di Cristo mentre, rispondendo all’apostolo Tommaso, affermava: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).

Poiché soltanto nell’intelletto divino, la verità trova la sua eternità,[5] la luce originata dalla Rivelazione in Gesù Cristo raggiunge la nostra mente, affinché possiamo abbracciare con ragione la verità eterna.[6]

Ora, fin nelle prime vicissitudini dell’avventura vocazionale domenicana di San Tommaso D’Aquino si può rintracciare l’impronta della fedeltà di Dio. L’itineranza del nascente Ordine dei Predicatori, la radicalità evangelica, la novità degli Ordini mendicanti stravolgeva gli interessi politici della famiglia D’Aquino. La scelta dirompente del giovane Tommaso di corrispondere alla verità della chiamata interiore nella sequela dei figli di San Domenico impediva l’attuarsi dei progetti familiari già stabiliti. La celebre ricchezza dell’Abbazia di Montecassino, segno della Cristianità feudale, di cui Tommaso era destinato a diventare abate, si scontrava con la vivace nascente realtà universitaria di Parigi, specchio di una nuova società nascente, a cui il ventenne D’Aquino era diretto, durante quel viaggio nel maggio 1244 in cui fu rapito. Condotto nel castello a Roccasecca (FR) dovette attendere poco più di un anno per ritornare a Napoli e riprendere la strada per Parigi.[7]

In un opuscolo del 1954, Gilbert Keith Chesterton scriveva: «La tentazione più forte per la gioventù paganizzante di oggi non è tanto quella di accusare i frati di non tenere fede ai voti, quanto di chiedersi perché mai vi tengano fede».[8] Se traslassimo le perplessità della famiglia D’Aquino, i suoi interessi economici nel mantenimento delle ricchezze feudali, all’attualità in cui siamo pienamente e ministerialmente inseriti, dovremmo constatare non ci sia altra soluzione, senza tempo, che l’appello alla continua conversione. Fede in Cristo talmente vissuta da conquistare tutta la vita, a donarla per riaverla trasformata, nella dinamica dell’olocausto, immagine usata dall’Aquinate per descrivere proprio la vita religiosa.[9] D’altronde solamente un fuoco bruciante d’amore sarebbe capace di permettere la morte al mondo per vivere solo per Dio.[10] Il medesimo ardere per amore di Cristo verità che, nella trasmissione agiografica della vita di San Tommaso D’Aquino ce lo fotografa con la testa appoggiata al Tabernacolo per poter sforzarsi di comprendere e spiegare al meglio il mistero divino. Oppure ce lo riporta pronto a replicare al Crocifisso parlante – Bene scripsisti de me, Thoma; quam ergo mercedem accipies? – con le parole che riassumono la sua teologia della Beatitudine eterna,[11] Non aliam nisi te Domine.

Seppur spogliata dagli ornamenti agiografici, indubbiamente la vita dell’Aquinate è testimonianza eloquente di santità capace di indurci ad indugiare sulla proposta spirituale che consegue alla sua vastissima produzione teologica. San Paolo VI riconosceva che «Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la libertà di spirito nell’affrontare i nuovi problemi, l’onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa».[12] Di certo, tale discernimento delle correnti di pensiero arabe ed ebree del suo tempo,[13] ha implicato profonda e continua preghiera, nell’accettazione dell’invito evangelico «chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9).

Il contesto della preghiera anticipa il brano lucano proposto dall’odierna Liturgia delle Parola. Non a caso, innanzi all’insegnamento in merito ad una orazione convinta e continua culminante con la promessa del dono dello Spirito Santo (cf. Lc 11,13), il Vangelo di oggi si apre con un indemoniato muto.

Il mutismo del posseduto, tradotto in greco con κωφον, secondo i Padri, solitamente era associato alla sordità. Così, ritorna anche nella pericope evangelica, la precedente polarità profetica dell’ascolto e del rifiuto. Infatti, chi non ha udito dalla nascita non ha la capacità di parlare, in quanto ci si può esprime soltanto udendo. Eppure, il prodigio operato da Cristo consiste nel far parlare il muto. Nel brano parallelo di Matteo (cf. 12,22-30) alla sordità e al mutismo dell’indemoniato si aggiunge la cecità.

In una logica spirituale è possibile identificare nell’esorcismo di Gesù la dinamica sempre straordinaria di qualsiasi conversione: la liberazione dell’anima dai lacci dell’errore, la luce della fede e la proclamazione della regalità di Cristo.

Tuttavia, il prodigio esorcistico di Gesù, per alcuni, è insufficiente. Se scribi e farisei attribuiscono al potere del diavolo stesso il potere di Cristo, altri imprecisati avversari, con malizia, domandano «un segno del cielo» (Lc 11,16) che, per la mentalità giudaica del tempo, era solitamente un segno zodiacale, un fenomeno nel mondo stellare, simile a quello donato da Isaia ad Acaz (cf. Is 7,10).

La risposta di Gesù non si situa nei cieli ma nelle coscienze. Gli astanti non assistono soltanto all’esorcismo ma alla conoscenza dello spirito dell’uomo, delle sue intenzioni e pensieri.[14]

Il primo dibattito contro i suoi più ostili nemici è situato proprio qui nel Vangelo di Luca. Quest’ultimo in 9,51 possiede uno snodo fondamentale nel suo cursus narrativo. La decisione di Gesù di avviarsi verso Gerusalemme rappresenta la svolta dell’intero racconto, da considerare in unità strutturale con gli Atti degli Apostoli. Dalla struttura generale dell’opera lucana è ricavabile un indizio importante perché ci riporta al principio della nostra riflessione, Gesù è in viaggio, è in cammino. Dopo il ministero in Galilea (cc. 3-9,50) si apre il sofferto itinerario del Salvatore verso il luogo della sua passione, morte e risurrezione (cc. 9,51-19,27). Anche la vita dell’Aquinate si interruppe durante il viaggio verso il Concilio di Lione il 7 marzo 1274. Quanto ne ricaverebbe il nostro contributo accademico se considerassimo quanto possiamo apportare alla ricerca scientifica (filosofica o teologica o canonistica) come un elemento di costruzione, di transito verso acquisizioni di conoscenza maggiori o più rilevanti delle nostre. Infonderebbe quell’umiltà, caratteristica fondamentale del sapere, che emerge tanto brillantemente quanto discretamente nei Consigli ad uno studente attribuiti a San Tommaso e datati 1270.

La stessa umiltà mancante a scribi e farisei nell’attribuire una risoluzione argomentativa senza contemplare alcuna interlocuzione con Gesù. Anche in questo l’Aquinate ci è maestro nel dialogo, non solo per la struttura dialogica della sua più celebre opera, la Summa Theologiae, tipica della metodologia didattica del tempo. L’armonia instaurata dal Doctor Angelicus tra due componenti fondamentali dello spirito umano, la fede e la ragione è realizzata attraverso l’abbraccio tra due istanze complementari, in quanto la prima suppone la seconda,[15] mentre l’elevazione della ragione avviene mediante la conoscenza di Dio e delle realtà spirituali.[16] Avendo Dio quale origine comune, fede e ragione non possono contraddirsi.[17]

Diversamente, l’approccio ottuso degli interlocutori di Gesù nel brano lucano comporta l’irrigidimento delle loro conclusioni fino alla ridicola contraddizione, smentita in forma argomentativa e interrogativa da Cristo. Satana non potrebbe combattere sé stesso.

Il processo logico del Divino Maestro conduce alla proclamazione del Regno di Dio: «se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio allora è giunto a voi il regno di Dio» (Lc 11,20). Il digitus Dei non può non rammentarci il celebre inno allo Spirito Santo, attribuito a Rabano Mauro († 856) ed è propriamente una immagina tradizionalmente eloquente della potenza del divino Spirito, ricca di riferimenti scritturistici (cf. Es 8,19; 31,18; Dt 9,10; Sal 8,3) nonché di notevole carico trinitario. Se il Figlio è il braccio o la mano del Padre, il dito ne è parte integrante.

Dunque, esplicitando il nesso tra lo Spirito e il Regno, al primo spetta un potere regale. Riferendosi a 1Cor 6,19, Sant’Ambrogio vede nel corpo dell’uomo una dimora regale e ciò si addice all’impegno dell’Aquinate nel liberare il corpo dalle influenze negative platoniche caratterizzanti il suo tempo.

In conclusione, se si dovessero cercare delle sublimi sintesi del pensiero tomista difficilmente, si potrebbero dimenticare le espressioni più soavi della teologia di San Tommaso D’Aquino se non nella sua poesia liturgica.

Nell’inno eucaristico Pange lingua, composto per la solennità del Corpus Domini del 1264, preghiamo: «Verbum caro, panem verum /verbo carnem efficit: /fitque sanguis Christi merum, /et si sensus deficit, /ad firmandum cor sincerum /sola fides sufficit».

Rispondente all’emergente devozione eucaristica caratterizzante il tempo che ha vissuto, Gesù Eucarestia è stata la trama della vita di San Tommaso, concretezza della fede celebrata, indagata ed insegnata. Insegnata non soltanto nel latino accademico delle sedi universitarie, dei trattati, delle istruzioni teologiche e dei componimenti liturgici, ma anche in dialetto al mercato di Napoli negli anni della sua permanenza. Segno di un ardente amore per la Verità da annunciare, affinché ogni ginocchio si pieghi e ogni lingua proclami la regalità di Cristo (cf. Rm 14,11).

Nel 1905, il già citato Chesterton descriveva il futuro in termini con cui potremmo tratteggiare il presente: «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto».[18] La sapienza settecentenaria del pensiero teologico e filosofico di San Tommaso d’Aquino ci ancorano saldamente alla Verità, aiutandoci a fissare lo sguardo su Cristo, custoditi e incoraggiati dall’intercessione dei santi, memori delle parole di Gesù, «Chi non raccoglie con me, disperde» (Lc 11,23).

[1] E. Rossetti, Diario. Il cammino di un religioso nella Chiesa che si rinnova, ESD, Bologna 1994, 1.XI.1968.

[2] Cf. Tommaso d’Aquino, De natura verbi, 11-13, nn. 283-285.

[3] Cf. Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 14 settembre 1998, 43.

[4] Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963, 6.

[5] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 16, a. 7.

[6] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 1, a. 1.

[7] Cf. M. D. Chenu, San Tommaso D’Aquino e la teologia, Gribaudi, Torino 1977, 5-21.

[8] G. K. Chesterton, La Chiesa cattolica e la conversione, Morcelliana, Brescia 1954, 23.

[9] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 186, a. 1.

[10] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 88, a. 11, ad. 1.

[11] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 62, a. 1.

[12] Paolo VI, Lumen Ecclesiae, 20 novembre 1974, 8.

[13] Cf. Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 14 settembre 1998, 43.

[14] Cf. O. Da Spineteoli, Luca, Cittadella editrice, Assisi 1982, 401.

[15] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-I, q. 8, a. 2.

[16] Cf. Benedetto XVI, Angelus domenicale, 28 gennaio 2007.

[17] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, I, VII.

[18] G. K. Chesterton, Eretici, Lindau, Torino 2010, 243.

L’immagine di copertina è una foto della chiesa dell’Angelicum al crepuscolo di fra Lawrence Lew op (link).