E’ certo che leggiamo e meditiamo la Scrittura ma, forse, quasi sempre in funzione degli altri: omelia, incontri di preghiera, catechesi, ecc…. Rapportarsi con il testo biblico, ritenuto per fede come “ispirato”, comporta la necessità di non considerarlo soltanto come semplice oggetto di studio da analizzare con tutti gli strumenti scientifici, ma come interlocutore «vivo» del “mio” cammino di fede. La Lectio Divina intende sottolineare questo aspetto. Ciò non significa in nessun caso sottovalutare l’importanza del primo approccio con la Bibbia, perseguito con la massima serietà scientifica possibile. Significa, però, considerare questo libro come un ferro incandescente che brucia le mani e mette in movimento il cuore di chiunque lo accosti, lasciandosi illuminare dal Signore risorto (cfr Lc 24,32).

Le fasi della Lectio Divina.

La prima condizione richiesta al presbitero per un approccio corretto con la Bibbia, è di preferire «questo» libro ad ogni altro libro, superando la tentazione o l’illusione di poter servire due padroni (Mt 6,24). Decidere di fare una simile scelta non significa dimenticare la storia e il cammino quotidiano degli uomini, nostri compagni di viaggio. Tutt’altro! In realtà, come lascia intendere la narrazione dei discepoli di Emmaus incontrati da Cristo risorto (Lc 24,13-35) è proprio la storia, la nostra storia, quella dei drammi e delle tragedie quotidiane che mette a dura prova la nostra fede, fino a rischiare l’incredulità.

Il presbitero che frequenta quotidianamente le Scritture e le compulsa senza sosta, con pazienza e perseveranza, non è mosso dalla curiosità dello studioso, ma piuttosto dalla sua sete della Parola di Dio ed è pienamente consapevole che senza quell’acqua necessaria che sgorga dal testo, da «quel» testo, non riuscirebbe mai a togliersi la sua sete di vita che lo ha condotto a compiere una scelta tanto radicale.

«Preferire questo libro ad ogni altro libro»: forse è proprio qui il messaggio che un frate potrebbe lanciare all’amico presbitero con estrema umiltà, ma anche con la ferma consapevolezza che si tratti, nientemeno, che dell’unum necessarium dal quale tutto il resto riceve consistenza ed efficacia. Se proprio non vogliamo “limitare” la nostra formazione esclusivamente alla Bibbia, possiamo riferire anche al presbitero diocesano quanto P. Jacques-Louis Monsabré, OP, noto predicatore francese, diceva del frate domenicano: l’uomo della Bibbia e del giornale…

Entrando, perciò, davvero in punta di piedi nella vostro studio personale, mi permetto di indicare alcune tappe comuni ad ogni lectio divina, non necessariamente monastica, che possono  essere utili a chiunque vuole intraprendere questo particolare itinerario spirituale:

1) Il primato della fede.

Riconoscere che il libro biblico è diverso da ogni altro, significa che dietro, dentro e oltre il libro scritto dell’Antico e del Nuovo Testamento occorre riscoprire una presenza, a suo modo, «reale» del Signore Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, in analogia a tutto ciò che la pietà cristiana ha collegato con la presenza di Gesù Eucaristia adorato nel Santissimo Sacramento dell’Altare. Basta osservare con quanta cura e venerazione la Chiesa ha custodito il codice biblico con venerazione analoga a quella riservata abitualmente al Corpo Santo del Signore. La liturgia stessa della Chiesa tratta sempre con estremo rispetto il libro delle Scritture… Il presbitero potrebbe trovare il modo di porre in evidenza con accorgimenti appropriati nelle chiese, ma anche nella sua casa canonica, la particolarità di «quel» libro e soltanto di quello…

Il Vaticano II, in continuità con tutta la tradizione teologica e patristica della Chiesa, ha riproposto lo strettissimo rapporto tra la S. Scrittura e l’Eucarestia, tra la mensa della Parola e la mensa Eucaristica e ci invita a rendere attuale l’unità tra Parola ed Eucarestia. “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto con il Corpo stesso del Signore, non tralasciando mai, soprattutto nella santa liturgia, di nutrirsi del Pane di vita prendendolo dalla mensa sia della Parola di Dio, sia del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli” (DV 21; 26; ecc.).

Quale è la spiegazione di questo stretto rapporto tra Parola di Dio ed Eucarestia? La motivazione è che in entrambe il Verbo continua ad “incarnarsi” rivelando (Parola di Dio) ed offrendo (Eucarestia) la vita divina. La Scrittura rivela Dio. Non si tratta di una rivelazione che comunica nozioni; ci sono anche nozioni, ma rimangono secondarie. La Bibbia è la Parola di Dio che “informa” l’uomo, cioè che dà all’uomo la “forma” di Dio, facendolo partecipare agli stessi pensieri, alla stessa volontà e alla stessa vita divina. La Parola di Dio “assimila” in Dio: è quindi, indispensabile perché un presbitero (qualsiasi persona) possa realizzare la vocazione cristiana, come lo è l’Eucarestia. Non per nulla i Padri della Chiesa, con insistenza, vedono nella Scrittura una grazia particolare, la considerano medicina, bevanda e nutrimento che sostiene l’esistenza del credente, fino a giungere ad ardite equivalenze con la stessa Eucarestia.

Un esempio per tutti: Cesario d’Arles. “Che cosa vi sembra essere maggiore, la Parola di Dio o il Corpo di Cristo? La Parola di Dio non è inferiore al corpo di Cristo. Allora, come facciamo attenzione perché non cada nulla per terra dalle nostre mani quando ci viene amministrato il Corpo di Cristo, così dobbiamo prestare attenzione perché non cada dal nostro cuore la Parola di Dio che ci viene elargita. Chi ascoltasse con negligenza la Parola di Dio non è meno colpevole di colui che, per negligenza, facesse cadere per terra il Corpo di Cristo”. Non deve risuonare strana questa sensibilità spirituale per la Parola; basta ricordare che la Bibbia, nata dallo Spirito Santo, autore principale, rimane piena dello Spirito di Dio ed è continuamente da lui fecondata. Per questo motivo la Scrittura è Parola vivente, è Qualcuno, non è solo messaggio, ma è incontro con il Dio vivo e con Cristo che continua a spezzare a noi il Pane dell’Eucarestia e il Pane della Parola.

In entrambi Dio si rende presente e in Cristo, Verbo incarnato, parla della salvezza e opera l’evento della salvezza. È questa la grande verità richiamata dal Concilio: “per realizzare un‘opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, specialmente nelle azioni liturgiche. E’ presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro … sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. E’ presente con la sua potenza nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. E’ presente nella sua Parola, poiché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la s. Scrittura. E’ presente, infine, quando la Chiesa prega e salmeggia … “(SC, 7).

2) La dimensione sacramentale

Scriveva San Girolamo: «La carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda. E’ questo il vero bene che ci è riservato nella vita presente: nutrirsi della sua carne e bere il suo sangue, non solo nell’Eucarestia, ma anche nella lettura della sacra Scrittura. E’ infatti vero cibo e vera bevanda la parola di Dio che si attinge alla conoscenza delle Scritture» (Girolamo, Commentarium in Ecclesiasten, III, 12/13 in PL 23,1039A).

Il pane, di cui parla Gesù nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni (6,31-71), è nello stesso tempo la sua persona divina presente nella carne avuta da Maria, il dono del pane eucaristico, del quale Gesù dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6,54), ma è anche il dono del suo insegnamento, così come viene riconosciuto dagli stessi Apostoli che constatano: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai Parole di vita eterna» (Gv 6,68).

Il presbitero è nella condizione ottimale per valorizzare la dimensione «sacramentale», inerente al libro delle Scritture ispirate. Tutto questo mi sembra determinante per elaborare oggi, nella nostra Chiesa postconciliare, una appropriata spiritualità presbiterale. Se non partissimo da qui sarebbe estremamente difficile far capire perché ci dovremmo impegnare in un cammino di lectio divina per crescere nella maturità della fede. E sarebbe difficile anche, o addirittura impossibile, accettare che la lectio divina non è una pratica di pietà fra tante altre; non è spiritualità monastica; non è un essere aggiornati perché ormai va di moda questo modo nuovo di pregare, ma è semplicemente impegno a nutrirsi quotidianamente col pane sostanzioso garantito dal Signore per la vita della sua Chiesa.

3) La fiducia nella Parola

O la Chiesa è fondata sulla roccia della Parola o, altrimenti, potremo aspettarci da un momento all’altro che la furia dei tempi, come un uragano, spazzi via la nostra casa fino dalle fondamenta (Mt 7,24-27). Ricordiamo la parabola di Marco: «Diceva: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”» (Mc 4,26-29). Frutto di questa azione nascosta della «Parola seminata in noi» sarà il raggiungimento, graduale e progressivo, di una vera e propria identificazione dei nostri pensieri con i pensieri di Dio, delle nostre fantasie con le immagini scritturistiche. Succederà, con estrema naturalezza, che la Parola di Dio «resti» con noi durante le molteplici occupazioni quotidiane, di notte e di giorno, crescendo dentro di noi e manifestandosi nelle nostre scelte e nelle nostre proposte. «Come, egli stesso non lo sa».

I Padri della Chiesa, lasciandosi influenzare da certe intuizioni mistiche già presenti in Israele, proponevano volentieri, in questo contesto, immagini sponsali estremamente ardite che si possono leggere nelle opere dei grandi commentatori antichi della Bibbia fino a raggiungere livelli vertiginosi in personaggi a noi familiari, come Bernardo di Chiaravalle Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Ma il denominatore comune a tutti questi santi è stato sempre la frequentazione del testo biblico come se si trattasse della frequentazione della casa dell’amata da parte dell’amante innamorato.

4) La Comunione con la Chiesa.

Ogni volta che si pratica la Lectio divina, il libro della Bibbia non si va a prendere dallo scaffale della nostra libreria, ma lo si riceve dalla Chiesa. È determinante riceverlo ogni volta, e riceverlo dalle mani della Chiesa, perché questo libro deve trasmetterci tutto l’amore della Chiesa, tutta la responsabilità della Chiesa, tutta la fede della Chiesa, tutta l’ermeneutica della Chiesa.

Soltanto la Chiesa fondata sugli Apostoli possiede e legge autenticamente il testo delle Scritture. Al di fuori di questa accoglienza del libro dalle mani della Chiesa, è facile infatti correre il rischio di appropriarcene come cosa nostra e di considerarlo un testo come tutti gli altri. La mediazione di persone vive, che trasmettono la Parola viva di Dio, da bocca a bocca, è talmente necessaria che i Padri cristiani antichi non si vergognavano di descrivere tutto questo utilizzando immagini perfino sconcertanti. Riferendosi, per esempio, alle parole del Cantico dei Cantici: «Mi baci con i baci della sua bocca» (Ct 1,2). Origéne commentava: «Si parla al plurale di baci proprio perché noi comprendiamo che l’illuminazione di ogni concetto oscuro è un bacio che il Verbo di Dio dà all’anima perfetta. Forse in questo senso diceva la mente profetica e perfetta: “Ho aperto la mia bocca e ho attirato lo spirito”. Invece per bocca dello sposo intendiamo la facoltà con la quale egli illumina la mente e quasi avendole rivolto parole di amore, se essa merita di accogliere la presenza di facoltà così grande, le rivela ogni cosa sconosciuta e oscura: questo è il più vero e proprio e santo bacio che lo sposo, il Verbo di Dio, rivolge alla sposa, l’anima pura e perfetta. Immagine di questo è il bacio che nella chiesa ci scambiamo gli uni con gli altri, allorché celebriamo i misteri” (M. Simonetti (a cura di ), Origene. Commento Cant. dei Cant., I, 1, Città Nuova, Roma 1976, p. 78).

Una comunione che Origéne si permette di descrivere con parole così incandescenti non può ridursi ovviamente alla semplice e fredda ripetizione di formule di fede concentrate in un testo catechistico quale che sia. Essa ha bisogno, infatti, di un presbitero che vive ciò che celebra. La Chiesa glielo ricorda con la massima solennità, all’atto stesso della sua ordinazione. E i monaci potrebbero umilmente ricordare, col loro semplice «esserci» nella Chiesa, che si è autentica comunità «apostolica» soprattutto quando si vive concretamente “more apostolico” e si resta caparbiamente uniti a coloro che nella Chiesa possiedono il “charisma veritatis certum” (Ireneo di Lione)

5) L’epìclesi.

Soltanto con i presupposti della fede e dell’amore, insegnavano i Padri, possiamo aprire la Bibbia chiedendo insistentemente di conoscere i segreti e anche i significati autentici  nascosti fra le righe delle Scritture ispirate, all’Unico che scruta i misteri di Dio (1Cor 2,11), con l’invocazione allo Spirito Santo. Bisogna chiedere. «Chiedete e otterrete, bussate e vi sarà aperto perché chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto» (Mt 7,7-12). E si chiede il dono dello Spirito Santo con la fiducia di ottenerlo davvero. Insegna Luca: «Se voi dunque che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono?» (Lc 11,13). Si tratta dello Spirito promesso da Gesù: «Vi manderò lo Spirito che vi introdurrà in tutta la verità» (Gv 16,13). Nessun altro può conoscere i segreti di Dio se non colui che viene dalle profondità di Dio (1Cor 2,11).

Stupisce la possibilità stessa che avverte un presbitero di porre questa invocazione, a proposito del testo biblico, accanto ad un’altra invocazione che ripete sul pane, sul vino e acqua, e poi sull’intera assemblea, in ogni celebrazione eucaristica: «Manda il tuo Spirito su questo Pane e su questo Vino perché diventino per noi il Corpo e il Sangue ecc. ». Oppure: «perché tutti noi che ci nutriamo di questo pane e condividiamo questo vino diventiamo un unico corpo».

Se il dono dello Spirito va chiesto proprio allo stesso modo con cui lo si chiede sul Pane, sul Vino e acqua o sulla comunità orante delle nostre celebrazioni eucaristiche, non vorrà forse tutto questo insegnare implicitamente che, grazie alla nostra personale epiclesi compiuta in comunione con tutta la Chiesa, il libro delle Scritture assume di fatto una qualità particolare tale da permetterci di intenderlo con lo stesso Spirito (eodem Spiritu) con cui è stato scritto e consegnato alla comunità di fede? La possibilità di accostare il testo biblico agli altri doni concessi dal medesimo Spirito alla comunità del Signore, perché se ne nutra e cresca fino alla piena maturità di Cristo (Ef 4,13), suggerisce la natura salvifica che accompagna sempre ogni comprensione della Scrittura ispirata. Infatti, qualunque comprensione personale trova conferma della sua autenticità unicamente quando viene verificata dall’accoglienza della cattolicità della Chiesa.

Gregorio Magno, già nel VI secolo, va addirittura oltre nello sviluppo di questo concetto. Un «oltre» che voglio evidenziare con gioia, meglio ancora, con piacere. Dice Gregorio: «So che per lo più molte cose nella sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (quae solus intellegere non potui, coram fratribus meis positus intellexi). Attraverso questa scoperta ho cercato di indagare anche questo per rendermi conto per merito di chi io ricevessi tale capacità di comprensione. E’ chiaro infatti che ciò mi è dato attraverso coloro che mi sono vicini. Ne consegue, per dono di Dio, che il senso (della Scrittura) cresce e l’orgoglio diminuisce, quando per mezzo di voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno; perché – è la verità- per lo più ascolto con voi ciò che a mia volta vi dico» (Omelie su Ezechiele, II, 1, a cura di Vincenzo Recchia, Città Nuova, Roma 1993, pag. 49).

di fra Domenico Marsaglia