La Provincia di san Domenico in Italia ha promosso, per questo anno giubilare, la pubblicazione di un aggiornato studio sull’influenza dei Domenicani nell’ambito della produzione letteraria nel nostro paese.

In occasione dell’ottavo centenario della fondazione dell’Ordine dei frati predicatori (1216-2016), esce un volume ricco e articolato “I Domenicani e la letteratura”, a cura di Paola Baioni, «Biblioteca della “Rivista di Letteratura italiana”», Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2016 (pagine 192, euro 38) che si propone di ricostruire il contributo di natura linguistica, culturale e indirettamente letteraria, apportato dai Domenicani, in un ampio arco cronologico,compreso fra l’età medievale e la prima Arcadia, fra Iacopo Passavanti e Francesco De Lemene.

Una chiave di lettura del volume è suggerita dalle mirabili pagine introduttive di Carlo Delcorno, che rilevano prontamente la linea di coerenza che percorre il pensiero e la scrittura dei Domenicani, inclini a lasciarsi alle spalle le altezze della contemplazione, per discendere, entro un quadro di profondo rinnovamento, alla conversatio umana e alla predicazione, alla mediazione cultu rale e alla pratica assidua del volgare. Tutto questo si àncora a una saldissima dominante biblica, che si erge a baluardo, etico e didascalico, contro le lusinghe della poesia e della filosofia antiche. Ben si comprende come tali linee di forza corrano nella direzione di un palese antiumanesimo, che appare in tutta evidenza nella polemica di pieno Trecento e di primissimo Quattrocento contro Albertino Mussato (al quale si nega che la poesia possa essere ars divina o addirittura teologia) e contro Coluccio Salutati (al quale si critica severamente un progetto educativo fondato sui classici); e trovino il loro esito estremo nella radicalità di Girolamo Savonarola.
Sul versante opposto, si collocano i segni di lettura, i notabilia lasciati da Petrarca a un commento di Tommaso d’Aquino alla Fisica di Aristotele (sul codice Vaticano, Palatino latino 1036), che — come rileva Edoardo Fumagalli — ben lungi dal dimostrare un punto di contatto con il pensiero aristotelico-tomista da parte del padre della coscienza moderna, dimostrano la sua incolmabile distanza da quel pensiero, la freddezza di una lettura che non lo coinvolge e non lo stimola al dialogo con il testo, ma sfocia inesorabilmente nella reticenza e nel silenzio.
Quella dei Domenicani si rivela dunque una scelta originale, senz’altro innovativa dal punto di vista stilistico (ma talvolta attardata nell’impianto ideologico) e antiletteraria (nel senso classico del termine), che ha il merito di contribuire alla diffusione della nuova lingua volgare, con la circolazione capillare di trattati, commenti e omelie, in prosa di notevole efficacia comunicativa, duttile e viva, fitta di coloriture stilistiche e lessicali provenienti dalla pratica dell’oralità. Precoce e rilevante è anche il loro interesse per l’esperienza religiosa femminile, che sfocia nella scrittura mistica e fortemente metaforica di Caterina da Siena e di Caterina de’ Ricci, dove la cultura umanistica dominante risulta scossa dall’interno dal profetismo savonaroliano.
Mentre l’età umanistica consacra il ritorno al primato del latino nella scrittura letteraria, la pratica domenicana si attiene a un realismo linguistico di riscatto del volgare e di abbandono del decorativismo retorico, che avrà i suoi esiti migliori in età rinascimentale, nella spregiudi catezza stilistica dei prosatori alternativi alla proposta bembiana, da Machiavelli, a Bandello, all’Aretino. Dai Domenicani (si pensi all’esempio del Cavalca) proviene un’attenzione realistica a tutti gli strati della società, anche quelli controversi, contaminati dal vizio, così come ai poveri, ai tribolati, agli infermi: ne nasce una commedia umana spesso contraddistinta da una retorica bassa, in sermo, destinata a sfociare nelle narrazioni novellistiche. Questa si intreccia con un’inclinazione altrettanto forte verso il registro drammatico, che — soprattutto con la pratica delle laudi — la colloca alle origini del teatro in volgare in Italia. A questi due filoni (la prosa novellistica e il teatro) vanno ricondotte due figure in qualche modo ambivalenti, Matteo Bandello e Francesco De Lemene. Il primo si forma nella tradizione culturale dell’Ordine, grazie anche all’esperienza giovanile di segretario dello zio Vincenzo, maestro generale, ma ben prestò (attraverso la frequentazione delle corti, tra Milano, Genova, Ferrara, Parigi) diviene un letterato rinascimentale. Come ben spiega Andrea Canova, egli risulta sdoppiato fra il «domenicano zelante» e il «frequentatore dell’aristocrazia», traduce in latino una novella del Decameron (sulle orme del Petrarca), incontra Bernardo Tasso, Pietro Aretino, Francesco Berni, si dedica alla traduzione dell’ Ecuba di Euripide. Bandello risiede a lungo presso il convento di Santa Maria delle Grazie, dove probabilmente assiste alla realizzazione del Cenacolo di Leonardo, e risulta pienamente inserito nel sostrato umanistico milanese del tardo Quattrocento. Dopo la sconfitta dei francesi, a Pavia, nel 1525, egli è tuttavia costretto a una drammatica fuga dal convento. Si compie così una svolta decisiva nella sua vita, con la rinuncia allo stato sacerdotale e l’uscita definitiva dall’Ordine di san Domenico, si inaugura la stagione destinata sfociare nel suo capolavoro letterario, le Novelle.
Di Francesco De Lemene sono stati recentemente riportati all’attenzione dei lettori il teatro dialettale (per merito di Dante Isella) e le raccolte poetiche destinate al canto, che si accompagnano (dalla svolta del 1684 in poi) ad una produzione di argomento teologico e religioso: la parafrasi della parte prima della Summa Theologiae di san Tommaso, in forma di prosimetro, e II Rosario di Maria Vergine, dedicato a Eleonora d’Austria. Si tratta di una raccolta di centocinquanta madrigali e quindici sonetti, che — come testimonia Muratori — gli diedero, tra i contemporanei, fama di innovatore della poesia e di punto di riferimento dell’Arcadia. Gianni Festa ne analizza con finezza le qualità letterarie e musicali, non disgiunte da una salda radice teologica e da un forte legame con la pietà e il pensiero dei Domenicani. Tale confluenza di spinte diverse, stilistiche e teologiche, letterarie e scritturali, percorre e accomuna tutti i contributi del volume, frutto di un filone di indagine inaugurato dagli studi di Getto, De Luca e Pozzi, e ora sempre più fecondo.