Attualità di Henri deLubac

Non è naturale considerar l’uomo come una cosa naturale (G.K. Chesterton).

All’indomani del cinquantesimo anniversario della pubblicazione de Le mystère du Surnaturel (1965), abbiamo deciso di organizzare alcuni seminari per verificare la tenuta del contributo di Henri de Lubac all’antropologia teologica. Prendendo come punto comune la lettura offerta dal teologo gesuita della dottrina tommasiana sul desiderio naturale di vedere Dio, i saggi convergono sulla validità della prospettiva che implica un oltrepassamento del dualismo tra natura e grazia – proprio del tomismo che discende dall’interpretazione del domenicano Tommaso de Vio, detto il Caetano, della scuola suareziana e della maggior parte del confronto con la modernità – a favore di una visione dell’uomo meno estrinsecista.

Dal rinnovato assenso alle tesi connesse all’antropologia del teologo gesuita, compiuto alla luce dei percorsi storici proposti, auspichiamo che provenga una sorta di rilancio quanto all’attualità del pensiero di Henri de Lubac e della sua fecondità rispetto al dibattito teologico italiano che continua ad offrire segni di stanchezza. Uno di questi, almeno dal punto di vista ermeneutico, ci sembra consistere nell’eccessiva fretta con cui la questione del soprannaturale così come l’ha impostata de Lubac sia stata archiviata a causa di un’approssimazione manualistica che, nella maggioranza dei casi, ne ha attutito l’implicito potenziale di rielaborazione sistematica appiattendola sull’esistenziale soprannaturale proposto da Karl Rahner. Facendo riferimento innanzitutto a Surnaturel (1946), riteniamo che la proposta di de Lubac – pur avanzata prudenzialmente in termini storici – sia connotata da una radicalità incomparabile con la più fortunata proposta del confratello gesuita tedesco. Proprio per questo atteggiamento i diversi teologi nostrani sono portati a considerare la questione che riprendiamo in questo numero come “assodata”, magari per averla definita attraverso un semplicistico “de Lubac e Rahner”. Riconsiderando, invece, la visione implicita nelle ricostruzioni storiche di de Lubac ancora da articolare adeguatamente a livello teorico, desideriamo rilanciarne la lettura anche nel dibattito italiano.

Ricordiamo ai non addetti ai lavori, o più banalmente a chi non frequenta il mondo teologico anglo-americano, della forza e dell’attualità che il tema del rapporto tra natura e grazia conosce nelle dispute che si tengo tra l’una e l’altra sponda dell’Atlantico. Facciamo qui riferimento solamente all’illuminante saggio Il fulcro sospeso, dedicato da John Milbank a de Lubac, per difenderne creativamente l’opera di ressourcement a fronte del revisionismo teologico tentato da Lawrence Feingold. Pur facendo riferimento alle vette del discorso teologico, con tutte le immaginabili ricadute che il dibattito sul tema “natura-grazia” suggerisce rispetto alle diverse aree in cui viene oggi articolato il lavoro dell’intellectus fidei, l’attualità della disputa condotta in lingua inglese riguarda una peculiare urgenza di carattere pubblico. Soprattutto per riferimento all’inserimento del cattolicesimo nell’orizzonte culturale statunitense, segnato tanto da una ferrea separazione tra stato e chiesa, quanto dal riferimento problematico alla civil religion, ciò che viene messo in discussione è il rapporto tra il cattolicesimo e l’orizzonte politico-culturale del liberalismo. Da qui una vigorosa sollecitazione proprio per l’apparentemente stanco dibattito italiano: perché rinchiudersi nella teologia ad usum di una pastorale spesso di corto respiro, intenta a giocare coi linguaggi più alla moda per individuare slogans da porre sulle iniziative diocesane, e non lasciarsi coraggiosamente interpellare dal progetto di un’autentica critica teologica della cultura-ambiente orientata a rianimare l’azione ecclesiale come fonte di alternative cristiane al decorso del nostro mondo sempre più secolarizzato e refrattario – soprattutto nelle sue strutture apicali – al fascino del Vangelo? Mentre l’orientamento della ricerca universitaria si allontana sempre più dal paradigma umanistico, dopo la delusione drammatica dell’umanesimo ateo, solo un recupero dell’umanesimo cristiano – alla luce del ruolo non meramente estrinseco della grazia come partecipazione alla natura divina – sembra poter salvaguardare la stessa spiritualità costitutivamente incarnata dell’uomo, ossia “l’uomo nella sua differenza specifica”, dalle derive del post-human che intendono appiattirne l’essenza, a seconda degli indirizzi, sul quella dell’animale o del robot.

Attraverso questi saggi, che guardano al passato, auspichiamo un rinnovato impegno teorico ed ermeneutico per il futuro, proprio ripartendo dall’ancora-non-detto della pagina lubachiana così debitrice, a ben vedere, dalla lezione del Doctor communis Ecclesiae. Una dipendenza virtuosa, connessa a passi di estrema bellezza, prossimi a queste poche, vertiginose, righe della Summa contra Gentes (III, c. 57):

Supra probatum est quod omnis intellectus naturaliter desiderat divinae substantiae visionem. Naturale autem desiderium non potest esse inane. Quilibet igitur intellectus creatus potest pervenire ad divinae substantiae visionem, non impediente inferioritate naturae. Hinc est quod Matth.XX,30, dominus hominibus repromittit gloriam Angelorum: erunt, inquit, de hominibus loquens, sicut Angeli Dei in caelo. Et Apoc. XX [21,17],eadem mensura hominis et angeli esse perhibetur. Propter quod et fere ubique in sacra Scriptura Angeli in forma hominum describuntur: vel in toto, sicut patet de Angelis qui apparuerunt Abrahae in similitudine virorum,Gen.XVIII,2; vel in parte, sicut patet de animalibus, Ezech.I,8, de quibus dicitur quod manus hominis erant sub pennis eorum.