Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

24 novembre 2018

Letture: Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37

L’anno liturgico si chiude con un solennità che ha anche valore di ricapitolazione e che si presenta con un titolo solenne: Gesù Cristo Re dell’Universo. In realtà, sebbene spesso lo si sia affermato, non credo che si tratti di una definizione problematica per gli uomini del nostro tempo. Certo, nei nostri sistemi di governo un re compare più raramente; tuttavia il personaggio del re resta ben saldo nelle nostre narrazioni, dalla favola del bambino al romanzo: quasi ad indicare che si tratta di qualcosa che a che fare con un simbologia profonda, prima ancora che con la dottrina e la prassi politica.

Le stesse Sacre Scritture, in ogni caso, fanno uso di questa immagine: la seconda lettura di oggi definisce il Signore come «il sovrano dei re della terra» (Ap 1,5), mentre il vangelo secondo Giovanni mostra come Gesù non rifugga dal titolo che la domanda di Pilato propone: «“Dunque tu sei re?” Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re”» (Gv 18,37).

«Io sono re»: su questo punto non ci possono essere tentennamenti. La risposta di Gesù è decisa. E tuttavia, bisogna intendersi bene: perché tale risposta è data qui in maniera netta, da colui che più volte nei vangeli sfugge alle proclamazioni affrettate degli entusiasti dei suoi miracoli e della sua predicazione. Come già nel vangelo secondo Marco (14,61-62) per il processo davanti al sinedrio, è solo davanti al giudice umano, quando la condanna temporale sta per essere ineluttabilmente pronunciata, che il Re divino, il Figlio dell’uomo – di cui abbiamo sentito nella prima lettura di oggi – scopre infine la sua identità. Qui non è più possibile il fraintendimento: «Il mio regno non è di questo mondo» – comunque, non da questo mondo, come si può tradurre anche dall’originale greco, e come di fatto traduce san Girolamo nel testo latino della Vulgata. Non si tratta di combattere perché il Signore non sia consegnato ai persecutori. In realtà, come tutto il racconto della passione secondo Giovanni mostra, è Gesù che regge l’azione, fin dal Getsemani, dove in modo solenne si fa avanti, e le guardie indietreggiano (Gv 18,4-6), per arrivare fino alle estreme parole: «È compiuto», ad indicare che tutto ciò che doveva accadere è accaduto, guidato e retto dall’Onnipotente, consegnato alla libertà degli uomini nella sua debolezza umana.

La regalità di Cristo è dunque di altro segno, di altra sostanza, rispetto a quella a cui siamo abituati; e tuttavia ne conserva i caratteri distintivi peculiari: il Signore è colui che guida il destino del suo popolo, ma anche di tutta la storia, ed è colui che giudica e regge il suo regno, il mondo, l’intero cosmo. Dalla solennità di oggi possiamo così recuperare una consapevolezza che a volte appare un po’ appannata nel discorso contemporaneo sul cristianesimo e sulla fede: Gesù non è solo un maestro di morale; non è un grande uomo fra i molti, fosse anche il più grande; il suo messaggio non è solo un codice etico particolarmente adeguato e corrispondente alle aspirazioni e alle necessità dell’uomo. Certo, è anche tutto questo: ma noi professiamo innanzitutto che Gesù Cristo, vero uomo, è anche vero Dio. Nell’abisso dell’unione delle due nature nella sua unica Persona, Egli è – come abbiamo ascoltato dal libro dell’Apocalisse – «l’Alfa e l’Omega», il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine: tutto è stato fatto per mezzo di lui (Ap 1,3), e in lui tutto è ricapitolato (cfr. Ef 1,10). Questo è il «mistero di Cristo» (Ef 3,4; Col 4,3), che in ultima analisi è il mistero della nostra vita, della nostra origine e del nostro destino, della vita del mondo, della sua origine e del suo destino.

Vi è un passaggio, nel libro dell’Apocalisse, che compendia bene la regalità di Cristo, così come ci appare da queste riflessioni. Si tratta di un inciso, là dove si parla di coloro i cui nomi sono scritti sul libro della vita «dell’Agnello, immolato dalla fondazione del mondo» (13,8). L’Agnello in piedi, come immolato (cfr. Ap 5,6), che poco prima appariva sul trono, ora mostra la sua regalità sul tempo e sul mondo: una regalità che però è tale per aver attraversato la grande tribolazione, e in forza dell’atto d’amore supremo; addirittura, una regalità in cui questa tribolazione per amore appare misteriosamente «fin dalla fondazione del mondo». La grande vittoria di Pasqua non cancella allora i segni della passione: è tale, anzi, proprio in forza di questi; e il mondo pare fondarsi nell’amore sofferente, fin dal principio.

Quanto è lontana, questa regalità, da quella a cui la storia, gli uomini ci hanno abituati; e tuttavia, quanto è più consonante con quell’idea, con quell’anelito a una regalità più pura, che le storie degli uomini, i miti delle antiche civiltà, a volte raccontano. Come sempre, il Verbo incarnato ci riporta ai nostri desideri più profondi, e li compie. Egli è il re buono, il re giusto, colui che regge tutto; più ancora, egli è colui da cui tutto ha inizio e colui che tutto compie. Con questo, però, non rimane sul suo trono inaccessibile, al di là del tempo e dello spazio, ma è sceso a prendersi cura del suo popolo, e di questo porta le ferite da sempre e per sempre. Nell’abisso di questo amore, nell’abisso dell’incrociarsi di tempo ed eternità, della nostra libertà e della Sua onnipotenza, di giustizia e di misericordia, sta il mistero di Cristo, il Figlio dell’Uomo che è Dio, Re dei re e Signore dei signori