Grandi cose ha fatto il Signore per noi

28 ottobre 2018

LETTURE: Ger 31, 7-9; Sal 125; Eb 5, 1-6; Mc 10, 46-52.

In questa domenica la luce della fede emerge in tutta la sua forza nella contrapposizione con le tenebre e l’oscurità simboleggiate dalla cecità e dalla successiva guarigione del cieco. In un’atmosfera di vera gioia si racconta la esultante processione degli esiliati babilonesi che rientrano a Gerusalemme, speranzosi di ritrovare un nuovo stile di vita e soprattutto di poter incontrare di nuovo il loro Dio e di poterlo pregare nel tempio di Gerusalemme, luogo sognato e agognato lungo tutta la durata dell’esilio. Il libro del profeta Geremia funge da cornice introduttiva perfetta, capace di far cogliere il senso del cambiamento e la relativa gioia. Coloro che sono presenti in questo cammino recano con se la fatica e la fragilità della loro esistenza, come il cieco e lo zoppo, come la donna partoriente e la donna incinta. “Erano partiti nel pianto e ora tornano nella consolazione”, e sottolineano la loro confessione di lode, attraverso il canto di gioia che prorompe incessante lungo la strada.

Li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno”. Questi deportati, che nella ritrovata libertà gustano il significato dell’essere salvati, di sentirsi finalmente amati e redenti da Dio, trovano facile e appianato un cammino in realtà non semplice, perché per rientrare in Israele occorre superare i valichi dei grandi monti siriani. Ma questa è la strada del ritorno a casa, e la gioia cambia la prospettiva del cammino. Questa bellissima lettura potrebbe già essere un esempio di come noi, viandanti e pellegrini in questo mondo, potremmo vivere più felici le nostre giornate se ci sentissimo amati da Dio e in cammino verso il Regno dei Cieli, capaci di considerare appianati gli ostacoli del nostro percorso e della nostra storia. Tornare nella consolazione, dopo essere partiti piangendo, rappresenta la misurazione di un percorso in cui le stesse lacrime, prima di dolore poi di gioia, sottolineano “gli occhi e la vista” come elementi centrali di comprensione della fede. Vedere con fede diviene l’espressione e il paradigma della storia di ciascun credente, che nel percorso verso Dio, a volte, è costretto a camminare a tastoni, in luoghi bui ed incerti.

In questo suggestivo sfondo, segnato dal chiaroscuro di luce e tenebre, di nitidezza e cecità, emerge in tutta la sua potenzialità il cammino di fede, attraverso il ruolo di Gesù, colui che “è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza”. Questa straordinaria pericope della Lettera agli Ebrei, in cui Gesù esprime tutta la forza del proprio ruolo di Sommo Sacerdote, già sottolineato nella domenica precedente, può essere compresa proprio come la principale motivazione per portare a compimento il percorso di fede intrapreso. Egli, infatti, si riveste della “debolezza” umana, e per queste comprende da vicino le nostre debolezze, i nostri dubbi, la fatica di esprimere la pienezza della fede e di vivere in serenità. Per questo prova “compassione” per ogni credente, non come chi compatisce nel senso della commiserazione, ma come chi assume tutta la diversità e le più remote angolature del dolore umano. Questo grande Sommo Sacerdote diviene anche il mediatore della fede, colui che salva sondando le pulsazioni del cuore dei credenti.

Nel vangelo di Marco, in cui il miracolo è la testimonianza di un percorso pedagogico che porta alla scoperta della natura divina, oltre che umana, dell’uomo-Dio, assistiamo alla guarigione di Bartimeo, il quale richiama tutta l’attenzione di Gesù con la forza della voce, segno di una fede profonda, che grida e risuona il suo dramma. Abbiamo noi il coraggio di tale fede davanti a Dio, piuttosto segnati da una preghiera timida e formale all’interno di assemblee liturgiche spesso anonime? Bartimeo si rivolge a Gesù chiamandolo “Figlio di Davide”, riconoscendo in tal modo la sua appartenenza davidica e la sua autorità. Ogni percorso di fede autentica sboccia e si stabilisce nella misura in cui l’identità di Dio è riconosciuta in tutta la sua forza. L’espressione “Figlio di Davide” rappresenta, in tal senso, quasi una professione di fede. Essa è poi rafforzata dalla convinzione, che contrasta i benpensanti attorno a lui, i quali gli intimano di tacere. Bartimeo non si scompone, è fermo nella sua richiesta, e Gesù riconosce non solo la semplicità e la forza di questa richiesta, ma anche il superamento di ciò che essa comporta, anzitutto la vergogna di coloro che lo guardano con disprezzo.

Che cosa vuoi che io faccia per te?” Questa domanda, posta da Gesù, manifesta la centralità dell’azione divina, la sua iniziativa volta a convertire, trasformare e risorgere la persona umana segnata dal buio del dolore, dell’indifferenza, dell’inimicizia, della divisione, dell’odio e della guerra. L’uomo grida a Cristo che lo trae in salvo, ma l’uomo grida a Cristo quando riconosce, proprio attraverso la fede, la grandezza del suo amore che gli accorda la salvezza: “Va, la tua fede ti ha salvato”. La fede genuina, semplice e diretta, non ingenua ma consapevole del rischio, diventa il centro di una domenica dove la gioia è segnata proprio dal realismo di questo cammino, che porta in se il riconoscimento del cambiamento di percorso. La luce è fede e serenità, gioia e capacità di educare con la testimonianza e la profonda risorsa dell’amore e della qualità delle relazioni umane. Allora è possibile esprimere la gioia vera, quella del ritornello del Salmo 125: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”.