Oltre la guarigione la salvezza
13 ottobre 2019
Letture: 2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
Tra le malattie menzionate dalla Scrittura una di quelle più impressionanti e lesive – tanto del tessuto epiteliale, quanto per la qualità relazionale – è certamente la lebbra. Considerata come una maledizione di Dio, probabilmente in forza dell’alto tasso di infettività e degli effetti umilianti sulla pelle, la lebbra compare sia nella prima lettura che nella pagina evangelica scelte per la liturgia della Parola di questa domenica. Manifestando l’intenzione sanante per aprire l’intelligenza della fede alla volontà salvifica implicita nell’azione di Dio, i miracoli narrati rispettivamente nel secondo Libro dei Re e nel vangelo secondo Luca procedono proprio da questa malattia per farne il luogo operativo della misericordia di Dio che si dischiude integramente attraverso la fede. In questo senso possiamo dire che la guarigione miracolosa rimane nell’ordine del segno, mentre ciò che il Signore intende veramente operare in noi è la conversione, che si attua per mezzo dell’obbedienza della fede, dischiudendo quell’orizzonte di salvezza che è il fine della missione del Figlio tra noi.
L’episodio relativo al comandante Naamàn splende per la bellezza della costruzione narrativa e per il messaggio che trasmette in modo chiaro e coinvolgente. Su richiesta del profeta Eliseo è chiesto a Naamàn di andare presso la casa del profeta stesso e di bagnarsi sette volte nel Giordano al fine di essere sanato dalla lebbra. A fronte di questa semplice richiesta, Naamàn è preso da un certo sdegno risentito, perché il profeta ha smantellato d’un colpo il suo immaginario religioso e il suo orizzonte d’attesa denso di prodigi. Persuaso dai suoi servi ad obbedire alle parole di Eliseo, il fiero comandante esce dal Giordano perfettamente guarito. Allora Naamàn cerca di ricompensare il profeta con un dono, ma a fronte del fermo rifiuto di quest’ultimo, s’accontenta di portare con sé una certa quantità di terra per poter adorare solo il Signore. Se Naamàn ha ottenuto la guarigione del corpo da Dio in modo puramente gratuito, attraverso l’obbedienza alla parola profetica con cui ha manifestato la sua fede, è solo con il segno finale dell’avvenuta conversione al Signore che si compie l’azione divina e così anche la narrazione. Se al dono della salute non può seguire alcun contro-dono – perché viene da Dio – la narrazione lascia intendere che l’unica risposta che Dio accoglie effettivamente in risposta al dono concesso sta in quella stessa fede che dapprima spinge Naamàn a bagnarsi nel fiume (per quanto paradossale potesse sembrare quella richiesta) e in un secondo tempo lo porta ad asserire di non volere “compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore” (2Re 5,17).
Nella pagina evangelica viene ripresa la medesima dinamica di questa narrazione, in cui Luca introduce una brillante variazione che fa tutt’uno con il senso profondo della pericope. Se la purificazione (o guarigione) dalla lebbra è un dono della misericordia divina che Gesù concede senza riserve, la salvezza richiede la fede. L’elemento di novità portata dal vangelo consiste nella menzione dello stesso nome di Gesù che prelude alla forma che la salvezza assume con il suo avvento: il passaggio dalla guarigione alla salvezza è analogo al passaggio dal dono della guarigione al donatore della guarigione stessa. Solo uno, e per giunta straniero, che probabilmente si disponeva verso Dio senz’alcuna pretesa di essere ricompensato per la propria osservanza, esprime la propria gratitudine lodando Dio e ringraziando Gesù. Nel rendere gloria a Dio il Samaritano appena guarito dimostra di aver oltrepassato il mero interesse per il proprio benessere fisico. La fede qui si attua nella relazione personale con Gesù, riconosciuto come il Dio cui rendere gloria. Nel nome di nessun “dio” generico, architetto o orologiaio universale, vi può essere misericordia e salvezza. Questa accade solo quando tra noi e Gesù accade quella che san Tommaso d’Aquino avrebbe chiamato una relazione di amore d’amicizia. Una relazione di grazia, avrebbe detto san Paolo, che accade nel racconto lucano con uno “straniero” (che è una delle forme di quelli che nel vangelo secondo Matteo sono chiamati da Gesù “i miei fratelli più piccoli”) e sembra “faticare” di più con coloro che si sentono in patria (i figli d’Israele) che tendono ad interpretare la benevolenza del Signore come una mercede dovuta sulla base di una presunta osservanza alla Legge e all’Alleanza. Lo straniero, sapendo di non avere nulla per cui accampare diritti in ordine alla propria guarigione, riconosce il dono in tutta la sua gratuita bellezza e corrisponde con un’autentica gratitudine adorante. La stessa che, stando alla seconda lettura, ogni cristiano è chiamato ad avere a fronte dell’annuncio del mistero di Gesù Cristo, “risorto dai morti, discendente di Davide” che “se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,13).
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