La fecondità della croce
16 settembre 2018
LETTURE: Is 50,5-9a; Sal 114; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35
La liturgia della Parola ci presenta un singolare intreccio tra il tema della dell’annuncio della messianità sofferente di Gesù, proposto dal vangelo e prefigurato dal terzo canto del servo di JHWH tratto dal libro del profeta Isaia, e il noto passaggio della lettera di san Giacomo relativo alla relazione tra la fede e le opere conseguenti ad essa. Seguire Gesù significa certo disporsi ad accogliere la propria croce, come doloroso accadimento connesso con le vicende della storia ferita dalle conseguenze del peccato originale, ma quest’atto di affidamento compiuto “per causa sua” comporta una fecondità nuova e altrimenti nemmeno concepibile. Uno degli aspetti della salvezza offertaci in dono dal Signore Gesù consiste proprio nel lasciare che la sua grazia trasformi le nostre croci, che di per sé sono un male, in mezzi che ci conducono progressivamente a maturare in noi – per utilizzare le parole di san Paolo – “gli stessi sentimenti che furono di Gesù Cristo”. Solo a partire dal vivere la stessa compassione di Gesù per l’uomo ferito e umiliato, potremo con Lui operare secondo quella carità che è il modo stesso di amare con cui Dio ama.
Il brano evangelico di questa domenica costituisce una pagina centrale della narrazione di Marco. Non solo viene esplicitamente alla luce la questione determinante di tutto il vangelo, ossia la domanda sull’identità di Gesù, ma tale interrogativo è connesso con l’annuncio della sua passione, morte e risurrezione e fa tutt’uno con la peculiarità della sequela cristiana stessa. Gesù chiede ai suoi discepoli chi lui è per la gente e poi per loro e quest’identità – solo parzialmente colta da Pietro – viene a caratterizzare lo stile stesso della sequela. Seguire Gesù significa così, certamente, dirigersi verso la risurrezione, ma non senza aver preso su di sé la propria croce. Tra la domanda e l’insegnamento di Gesù viene collocato da Marco il duplice episodio che rappresenta, secondo la tonalità scabra del caratteristico incedere marciano, l’ambiguità che insieme a Pietro ha colto anche ciascuno di noi, quanto – almeno una volta nella vita – siamo stati messi di fronte alla modalità di esercizio della messianicità abbracciata dal Nazareno. Non è così difficile riconoscere in Gesù un messia capace di rinnovare la storia, così come nella contemporaneità molti sono disposti a riconoscere nel giovane carpentiere galileo un maestro di saggezza o un’espressione ideale dell’umanità. Pietro non aveva forse mai avuto dubbi che quel giovane, così sorprendente, fosse il Messia, ma nel suo entusiasmo non si accorgeva di essere guidato più dalla sua “idea” di Gesù, che non dalla sua realtà che, pazientemente, Egli andava comunicando giorno dopo giorno. Un aspetto imprescindibile della sua identità messianica, nonché motivo profondo dell’invito rivolto a Pietro a tacere sul suo essere “il Cristo”, consisteva appunto nella fatto sua totale dedizione ai fratelli per amore, in obbedienza al Padre. Questo consegnarsi di Gesù nelle mani dei fratelli, nel quadro dei rapporti determinati dal potere, dall’affermazione di sé e dal desiderio di vendetta – propri dell’umanità che ha distolto lo sguardo dalla relazione originaria con Dio – non poteva che risolversi nella ricompensa della sofferenza, del rifiuto e della morte. Un quadro da cui, per quanto misteriosa, non va mai disgiunta la risurrezione. Pietro è tuttavia troppo pieno delle proprie visioni per cogliere quest’accenno alla risurrezione. Non comprendendo questa dinamica che implica una divino-umana sovrabbondanza di vita, a fronte della logica di morte adottata dall’umanità peccatrice, si ferma all’annuncio della sconfitta e della morte. Come se Gesù fosse uno dei tanti ingenui profeti di questo mondo, i quali – essendosi accorti di essere andati troppo lontani – si rassegnano ad un destino di morte. Non comprendendo nulla di Gesù, Pietro si lascia andare ai propri sentimenti di protezione nei confronti del giovane Cristo e compie l’errore di porsi alla testa del cammino. Quante volte quel “Va’ dietro a me, Satana!” sarà risuonato nella mente di Pietro, forse proprio nel momento di dover prendere le decisioni più difficili per il bene della chiesa che Gesù stesso gli ha affidato? Seguire il Signore significa anche imparare a pensare secondo Dio, lasciarsi convertire nel profondo, laddove sorgono i nostri pensieri e i nostri affetti. La donazione non può essere limitata o interrotta: salvare la propria vita significa perderla, donarla senza la certezza del contro-dono.
L’accostamento suggerito dalla liturgia ci invita qui a pensare quale possibile relazione possa esserci tra la sequela, che porta a rinnegare se stesso e a prendere con sé la propria croce, e la fede che si manifesta attraverso le opere. Si tratta della medesima logica di fecondità: una fede morta, che si limita all’aspetto conoscitivo del mistero cristiano, e non diventa motivo di trasformazione delle relazioni e degli affetti, che non “corrisponde” al dono ricevuto in Cristo, in altri termini, che non conduce ad amare come Gesù ha amato, è morta e non salva. La fede sta invece alla carità, come il fiore sta al frutto: senza l’accettazione della propria croce, sembra ripeterci altrimenti san Giacomo, che ci fa uscire da noi stessi per andare incontro all’altro – fosse anche il più infimo di tutti – la fede non può fruttificare nella carità. Mentre chi accoglie la croce con Gesù, si dispone ad una fecondità nuova e imprevedibile.