Un’impegnativa fraternità
6 settembre 2020
LETTURE: Ez 33,1.7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20
L’epistola e il vangelo di questa domenica sembrano a prima vista difficili da comporre, se non proprio in contrasto.
Da un lato, il testo da Rm 13 disegna spazi ampi e allarga il respiro alla sola legge dell’amore: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la legge». È difficile non pensare qui al celebre passo in cui Agostino che pare esprimere il medesimo concetto: «Ama, e fa’ ciò che vuoi» (In epist. Ioh., VII, 8). D’altro canto, la lettura evangelica da Mt 18, come anche un riferimento nella prima lettura, dal libro del profeta Ezechiele, esprimono in qualche modo una situazione non solo di controllo («O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa di Israele »: Ez 33,7a; «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo»: Mt 18,15a), ma addirittura di sanzione («se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano»: Mt 18,17b).
In realtà l’antitesi è solo apparente. Le indicazioni che lo stesso Paolo dà in altri testi evidenziano a volte in maniera molto netta che la prospettiva del passo evangelico gli era ben presente : si pensi solo ad alcuni passaggi della prima e della seconda lettera ai Corinzi – ad es. 1Cor 5,3-5: «Ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione: […] questo individuo venga consegnato a Satana». Del resto, nel contesto più ampio in cui appare, anche la frase di Agostino mostra il suo reale significato: non si tratta del fatto che, in virtù di una lontana scelta di fondo, ogni atteggiamento particolare sia ritenuto lecito o senza conseguenze, ma di ricondurre il giudizio su un atto particolare all’intenzione profonda di chi lo compie. Per esempio – spiega il vescovo di Ippona – il Padre ha consegnato il Figlio alla morte di croce, ma lo stesso ha fatto anche Giuda: il primo, però, un atto di carità, mentre l’altro per tradimento, perché il Padre aveva per scopo la salvezza dell’uomo, e il traditore invece il guadagno dei trenta denari. Oppure: un padre percuote il figlio per correggerlo, per amore, e per contro la carezza di un padrone allo schiavo può essere dettata dall’interesse. Ama, e fa’ ciò che vuoi, dunque – se ciò che fai, lo fai per amore.
Il passo del vangelo parte allora dal presupposto che la libertà dell’amore è sempre a rischio a causa della nostra fragilità – non a caso i versetti immediatamente precedenti a quelli della lettura di oggi riportano la parabola della pecora smarrita (cfr. Mt 18,12-14). Lo smarrirsi, il cadere in errore, ha però sempre anche un valore sociale: come non ci si salva da soli, così il nostro errore ha esiti più ampi di quelli personali. Se sbagliamo noi, è tutto il corpo di coloro che riconoscono che Gesù è il Signore a subirne un danno.
Si tratta di una riflessione che è bene approfondire un poco: lunghi periodi hanno visto una sottolineatura della dimensione comunitaria, sociale, addirittura politica dell’appartenenza alla Chiesa, in cui la relazione personale con il Signore rischiava di essere sottovalutata. Forse in questi anni corriamo il rischio opposto. In realtà, come ricordava un altro padre delle Chiesa, Cipriano di Cartagine (†258), vescovo e martire, quando il Signore ha insegnato a pregare ai suoi discepoli, ha detto «Padre nostro», e non «Padre mio» (De or. Dom., 8): «La nostra preghiera invece è sempre pubblica e comunitaria; e quando preghiamo non lo facciamo solo in favore di una persona, ma per il popolo intero, perché l’insieme del popolo è come un unico corpo»
Capiamo allora meglio perché il Signore istruisca su come correggere il fratello, ricorrendo fino alla «comunità»: certamente per ricondurlo dalla via della rovina a quella che porta alla vita; ma, d’altro canto, perché – dice l’Apostolo – se un membro soffre, tutto il corpo soffre (cfr. 1Cor 12,26). Questo, in ultima analisi, spiega anche perché Gesù giunga a indicare l’estrema soluzione dell’allontanamento, se il fratello «non ascolta la comunità». Ciò ha per scopo il bene della Chiesa, e anche del fratello che sbaglia: perfino nel già ricordato, terribile passo di 1Cor 5,3-5, Paolo afferma di disporre che «questo individuo sia dato in balia di satana» in vista di un ravvedimento, della sua salvezza: «affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore».
In questo quadro comprendiamo la disposizione che Gesù dà ai suoi apostoli: «Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt 18,18). È davvero un passo decisivo e difficile: un passo che presuppone il passaggio dal Capo al corpo. Gesù provvede, una volta di più, a coloro che lo dovranno incontrare nei tempi lontani dalla sua vita terrena, e che quindi lo incontreranno nel suo corpo, che è la Chiesa. Questa è una «comunità» –appunto – di uomini, che quindi ha bisogno degli strumenti propri delle comunità di uomini. In ultima analisi, è quanto fonda l’aspetto istituzionale della Chiesa.
Si tratta di un elemento a volte recepito come problematico, se non addirittura in contrasto con un messaggio che si vorrebbe rivolto innanzitutto personalmente. In realtà, i cristiani pregano dicendo «Padre nostro», e non «Padre mio»: è inevitabile allora che la loro comunità abbia i tratti e gli strumenti del vivere comune degli uomini. Questo, in ultima analisi, attiene alla verità profonda della nostra fede: Dio si è fatto uomo, e ha assunto ciò che dell’uomo è proprio; il suo corpo che è la Chiesa è allora altrettanto incarnata: nella diversità delle culture e dei diversi tempi, ma innanzitutto in ciò che è proprio dell’uomo in quanto tale.
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