Siate di quelli che mettono in pratica la parola

29 agosto 2021

LETTURE: Dt 4, 1-2. 6-8; Sal 14; Gc 1, 17-18. 21-27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

Il tipo di approccio alla fede imposta la traiettoria religiosa di ogni credente. Sembra essere questo il tema della domenica, che riprende il filo conduttore del vangelo di Marco, il vangelo dell’anno corrente, cercando di sviluppare ulteriormente la riflessione sul credere compiuta nelle domeniche precedenti attraverso il vangelo di Giovanni. Ma a questo punto del cammino, il confronto non si limita a considerare il rapporto tra il credente e la Parola di Dio, bensì a valutare la circolarità della fede nel vissuto di ciascun cristiano e a verificare le scelte concrete che vengono operate nella propria vita. Alla domanda più che fondata sulla “praticità” che deve emergere dal percorso educativo fondato sulla Parola di Dio, e particolarmente evidenziata dall’apostolo Giacomo nella seconda lettura, si concretizza il duplice sfondo di una religiosità esteriore contrapposta a una religiosità interiore. Il settimo capitolo del vangelo di Marco coglie molto bene questo assetto, in una visione antropologica che elenca la qualità morale della fede in un giudizio severo sulla fallibilità umana, dal cui cuore esce il male molto più che dall’evitare l’uso di certi cibi o altre regole di purità classiche che appartengono all’ebraismo.

La liturgia della Parola si apre con un bellissimo brano del libro del Deuteronomio, il quale esprime la pienezza della professione di fede ebraica fondata sulla realizzazione di quella grande virtù che brilla in tutto il Pentateuco: la virtù di giustizia. Essa comprende tutto l’agire umano, religioso, cultuale, e regolamenta ogni aspetto anche apparentemente banale della vita quotidiana, mostrando come la capacità di rivestire l’esistenza di sacralità attraverso i più piccoli gesti, sia uno dei fatti di massima attenzione religiosa nell’ebraismo. La professione di fede non è quindi una “lettera morta”, ma un rilancio imperativo che coinvolge la vita quotidiana: “Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica”. Saggezza e intelligenza sono i frutti di un cammino che va dalla preghiera al lavoro, dalla vita familiare alle esigenze della comune società. In gioco c’è proprio quella “terra promessa” che non si limita ad essere una porzione di territorio geografico, ma la “vita eterna” che riporta ogni credente alla sua vera vocazione, nell’incontro pieno con il Creatore.

La “praticità” della fede non è sottolineata solo dal libro del Deuteronomio e dalla lettera di san Giacomo apostolo, ma anche da Gesù, che rompe lo schema esteriore con cui i farisei e alcuni degli scribi cercano di attualizzare il culto, limitandosi agli aspetti esclusivamente esteriori, celebrando una visione ipocrita della religione, e insuperbendosi delle proprie scelte. Gesù non ha mezzi termini dinanzi a questa falsa visione, e trae un brano del profeta Isaia per esprimere tutto il suo sdegno: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. In questo sdegno si colgono tutti i limiti della falsa religiosità, e che appartengono ad un culto senza senso, esteriore e proprio per questo lontano da Dio. Il vero culto è celebrato dal cuore, e non può appartenere ad una precettistica che, in tal senso interpretata, risuona come un trombone in una sinfonia di arpe. 

Il movente di tutta questa vicenda è l’apparente sfrontatezza di alcuni discepoli di Gesù, accusati dai farisei e da alcuni degli scribi di prendere il cibo senza le necessarie abluzioni. Ma la tensione che soggiace alla domanda di questi funzionari del tempio è tipica del processo di sacralizzazione caro a molte religioni, dove conta di più il “fare esteriore” della pratica che la “praticità” del credere. Credere significa guardare il mondo con gli occhi di Dio, e ricostruire la dimensione di amore presente tanto nell’atto creativo quanto nella kenosi redentiva, il processo di abbassamento del Cristo che viene nel mondo per salvare l’umanità. L’adesione di fede non può che sfociare nell’amore, ma spesso i credenti, nella vita della Chiesa, preferiscono essere “praticanti senza fede” che “pratici nella fede e nella carità”. Il termine “osservanza”, molto “ab-usato” anche nella vita consacrata, ha spesso ricondotto la vita spirituale al livello del fariseismo.

Il piglio di Gesù è assoluto e senza mezzi termini, radicale e al tempo stesso severo. Ci costringere a guardare come celebriamo, a guardare come educhiamo i nostri fedeli, ci chiede di rivedere le falsità di tante relazioni sorrette da logiche economiche, carrieriste e di opportunità, in un anno che celebra la vita consacrata e vorrebbe un altro respiro dalle famiglie religiose. I nuovi vizi dell’uomo contemporaneo sono ben peggiori del perbenismo farisaico, e trasformano le vocazioni dalla scelta di Dio alla scelta inescusabile di un efficientismo aziendale. Il vuoto lasciato dall’esteriorità è la malattia di un cuore diviso e stanco: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male”, sottolinea Gesù a conclusione del brano evangelico. “L’infarto” dell’esteriorità richiede una guarigione che prevede un nuovo stile di vita, dato dalla semplicità, dalla lentezza, dalla meraviglia, dall’ingenuità, dall’irresistibile fascino di una bellezza che i più non sanno ormai cogliere. Questa visione, che farebbe sorridere molti, e che molti altri giudicherebbero sospesa nell’utopia, è invece la nuova proposta che Gesù intende fare alle persone che incontra. Il risvolto principale è la guarigione dalla “sclerocardia”, la malattia che tiene in ostaggio l’uomo contemporaneo ispirato religiosamente, sempre diviso in se stesso tra formalismi religiosi e la mentalità da funzionario. Non basta eseguire delle osservanze per amare, ma occorre respirare a pieni polmoni quella fede che nella sua logica intrinseca sfocerà nella “praticità”, l’amore caritatevole identificabile nei gesti più umili.

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