Una fede sconfinata

16 agosto 2014

LETTURE: Is 56,1.6-7; Sal 66; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28

Ricevuta in dono come virtù dal cristiano, la fede teologale manifesta nel contesto delle letture odierne il proprio essere s-confinata. Proveniente da Dio stesso, la fede non sopporta di essere confinata nei nostri piccoli orizzonti, nelle nostre divisioni arbitrarie, nelle nostre pretese di superiorità. Essa è per natura priva di confini, sconfinata appunto, e ci aiuta a comprendere come le barriere che erigiamo tra noi per tutelare alcuni privilegi o per conquistarli a danno degli altri non arrivano fino al Cielo, laddove il Crocifisso risorto è assiso alla destra del Padre suo. Facendo attenzione a questo aspetto, possiamo ascoltare e meditare come anche il Signore Gesù – a fronte della grande fede della donna Cananèa – accetta di oltrepassare i confini “tradizionali” della sua missione. Guarisce la figlia di quella donna pagana, nonostante questa non appartenga alle «pecore perdute della casa d’Israele» cui Egli è stato (inizialmente) mandato. Anche la prima lettura richiama quest’accogliente apertura della fede biblica per mezzo delle parole del profeta Isaia: gli stranieri che hanno amato il nome del Signore saranno radunati nella casa di preghiera del Signore stesso, in Sion. Da luogo di culto del popolo riservato al Popolo eletto, la casa del Signore sarà “ampliata” in modo da risultare effettivamente capace di essere «casa di preghiera per tutti i popoli». La seconda lettura ci presenta, infine, un’ultima variazione sul tema della sconfinatezza della fede cristiana e lo fa a partire dal dramma vissuto da san Paolo per il mistero della salvezza degli Ebrei. Come le genti, un tempo disobbedienti, hanno trovato misericordia in Cristo, anche l’attuale disobbedienza di parte degli Israeliti è in attesa della medesima misericordia. Come potrebbe una fede meno che sconfinata affermare il paradosso della divina compassione viscerale? «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza», esclama l’Apostolo, «per essere misericordioso verso tutti!».

Quale può essere la novità della «giustizia che sta per rivelarsi», con cui si apre la prima lettura, dopo che tante volte è stata descritta, invocata, respinta dal Popolo e predicata dai profeti? L’aspetto della giustizia che è in procinto di esser manifestato, di cui ci parla Isaia, sta proprio nell’apertura universale che abbraccia «tutti i popoli». La comprensione dell’universalità dell’appello divino è descritta attraverso l’integrazione di categorie finora escluse. La pericope selezionata nel lezionario tralascia il caso dell’eunuco (Is 56,3b-5), per concentrarsi sullo straniero. Il confine che separava l’Israelita dagli stranieri sta per essere oltrepassato, in forza della giustizia sconfinata che sta per rivelarsi. Allora l’osservanza del Sabato, così come il culto, non saranno più un segno di separazione, ma luoghi di un’incorporazione universale che è profezia della Chiesa di Cristo, edificata sulla pietra angolare, nel cui sangue si è celebrata l’unificazione pacifica dei due popoli (cfr. Ef 2,14-16). Mistero di unità nel sangue di Cristo, fonte di ogni misericordia, che rimane la condizione di possibilità – per quanto lasciata sullo sfondo – della dialettica paolina: come i pagani hanno disobbedito a Dio e hanno ricevuto misericordia a motivo della disobbedienza di parte d’Israele, così anche gli Israeliti otterranno misericordia: i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,29-31).

Sconfinata e pertanto accessibile a tutti, la fede, così come la misericordia divina, non sono un possesso scontato. Considerarlo tale, infatti, significa distruggerne la gratuita vitalità, riducendolo ad un assurdo meccanismo di conservazione dell’esistente. La pagina evangelica testimonia, per così dire della “fatica” per giungere ad apprezzare il carattere s-confinato della fede, attraverso la narrazione di un episodio in cui Gesù appare sulle prime inaspettatamente rigido. Di fronte alla richiesta dei discepoli di esaudire la Cananèa, guarendone la figlia tormentata da un demonio, Egli risponde in modo da confermare la visione per cui il Messia doveva dedicarsi esclusivamente agli Israeliti. Anche quando la donna trova il coraggio di avvicinarsi Gesù inaspettatamente risponde in modo duro, quasi offensivo, adottando – come si può desumere dalla conclusione – una sorta di maieutica particolarmente rischiosa. Sembra che proprio l’averla paragonata, in quanto pagana, ad un cucciolo di cane, susciti nel cuore della Cananèa la forza di rispondere con libertà e intelligenza: «eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». L’amore per la figlia spinge la donna ad un’umiltà sagace che la porta a non cedere sul suo desiderio fondamentale: la Cananèa, per quanto pagana, sa che Gesù può salvare sua figlia e non ha alcuna intenzione di accettare passivamente un rifiuto motivato sulla base della sua non appartenenza al popolo d’Israele. La donna sente che l’azione di Gesù non può essere costretta da questo limite; Gesù riconosce nel suo atteggiamento una fede grande e la esaudisce. La guarigione della figlia rappresenta, in questo modo, come un sigillo teso a definire il carattere s-confinato della fede. Un esisto tutt’altro che scontato, secondo la narrazione evangelica di Matteo, ottenuto per mezzo della fede nel Cristo salvatore che si esprime nell’umile tenacia che trasforma le “briciole della misericordia” nell’oltrepassamento dei confini – umani, troppo umani – tesi a limitare l’azione messianica.

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