“La compassione di Gesù ci sona la pace”
18 luglio 2021
LETTURE: Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
“Egli (Cristo) infatti è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne”. Questo testo è interessante, in modo particolare perché lega la pace all’abbattimento delle frontiere trasformate in “muro di inimicizia” e perché non fa della pace il prodotto di un negoziato fra autorità religiose (quelle del giudaismo e quelle del paganesimo) ma piuttosto il frutto dell’impegno totale di un uomo, Gesù, che ha dato la vita per creare un dinamismo più forte di quello dell’inimicizia, a tal punto più forte da averlo abbattuto, distrutto. Ancor più sorprendente è che Paolo identifica l’inimicizia con la legge, la legge “fatta di precetti e di decreti”, che non è certo più espressione della volontà di Dio, ma uno strumento di discriminazione (e di identificazione collettiva), a servizio del rifiuto, del respingimento dell’altro, cioè del pagano, che non gode del privilegio che rende superiore il popolo eletto. Ma basta che il pagano domini politicamente il popolo eletto – come era ai tempi di Gesù – perché quest’ultimo mobiliti il suo privilegio religioso contro chi avverte come una minaccia per la sua fede. Non c’è dubbio che l’attesa del regno di Dio fosse stata strumentalizzata politicamente dalle autorità religiose giudaiche e che Gesù abbia voluto rompere totalmente con questa strumentalizzazione di Dio e abbattere questa logica dell’inimicizia religiosa, dell’odio sacralizzato. Il prezzo da pagare era il più alto, ne andava di mezzo la sua stessa vita: tuttavia la sua morte non è stata un fallimento ma una vittoria, dal momento che è riuscita a distruggere nei suoi stessi fondamenti l’odio religioso e ha dato alla pace un fondamento definitivo, di cui il lavoro dei “costruttori di pace” non sarà che il prolungamento nel tempo.
Anche se non c’è un collegamento esplicito tra la seconda lettura ed il brano del vangelo di questa domenica, queste riflessioni sul dono di Gesù, che riconciliandoci fra noi in lui ci offre la pace vera, illuminano il senso di quello sguardo straordinario che il Signore rivolge alla folla che finalmente riesce a raggiungerlo. “Egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. E davvero sentiamo nostalgia per quello sguardo, che ci vede così come siamo e si intenerisce…
I Dodici erano stati inviati in missione e adesso sono ritornati: Gesù li invita ad allontanarsi con lui, come per approfondire il senso delle cose fatte e dette, degli incontri avuti. È un momento di verifica della vocazione, nel deserto, che è il luogo della preghiera, e separati dalla folla, ossia in disparte, per poter godere di un insegnamento più approfondito.
Ma questo tentativo di appartarsi fallisce. Gesù esercita una forza di attrazione tale che non c’è modo, per lui e per chi è insieme a lui, di sottrarsi alla gente che lo rincorre. Questo fallimento – un piano del Signore guastato dall’irruenza della folla – è una testimonianza preziosa che Marco ci dà sul Gesù storico e che solo il secondo vangelo ci ha conservato: il fallimento di un progetto diventa un’occasione per rivelare l’amore pieno di tenerezza di Gesù e tutta la sua statura di pastore escatologico.
Gesù “vede” (e possiamo domandarci se noi ci sentiamo visti da quello sguardo e se siamo disposti a ricambiarlo!) e “ha compassione”. Il verbo usato (splagchnìzesthai) nei vangeli ha sempre e soltanto Gesù come soggetto (oppure è lui stesso ad usarlo nelle parabole, come per il Buon Samaritano o il Padre Misericordioso), ed esprime il suo “essere preso alle viscere” dalla condizione di sofferenza di chi entra in contatto con lui. È come se il dolore dell’uomo toccasse in lui un punto vulnerabile, sì da far vibrare all’unisono le sue corde interiori. Nell’Antico Testamento questo verbo viene usato quasi esclusivamente per Dio e rende il suo sentimento materno di compassione davanti a chi è vittima degli avvenimenti storici. Il vangelo testimonia che l’attributo divino della misericordia è entrato nella storia e nella persona di Gesù. In questo verbo, in estrema sintesi, si esprime tutta la missione del Signore.
Il motivo dell’essere preso alle viscere è dato dal fatto che “erano come pecore senza pastore”: è un’espressione fortemente biblica e un’eco ne è conservata nella prima lettura di questa domenica, tratta dal profeta Geremia: Dio si prende necessariamente cura del suo popolo e non permette che sia disperso, senza pastore. Anzi, la necessità di un buon pastore definitivo orienta all’attesa messianica, a un avvenimento salvifico in cui finalmente ci sarà unità, sicurezza, benessere… in una parola: pace. Quella pace messianica di cui Gesù è il portatore, anzi, ne è la fonte stessa. All’inizio del suo ministero Gesù aveva proclamato “il tempo è compiuto” (1,15); eccoci ancora una volta messi in grado di comprendere che cosa significava quell’espressione apparentemente misteriosa: finalmente, dopo una lunga attesa e una lunga preparazione, l’amore pieno di tenerezza di Dio per gli uomini si è manifestato definitivamente in Gesù, che è capace di analoga misericordia-compassione-radicale solidarietà con gli uomini, specie per quelli più provati dalla sofferenza e dal bisogno. In Gesù la pace vera, il più caratteristico dei doni messianici del tempo nuovo, è offerta con pienezza a chi si mette in cerca di lui. Anzi, è egli stesso a lasciarsi trovare.
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