“Non temere, soltanto abbi fede”
1 luglio 2018
LETTURE: Sap 1,13-15;2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
“Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Con queste parole di Gesù rimproverava i suoi discepoli per il timore che li aveva assaliti durante la tempesta sul lago di Galilea. Ad esse fanno eco quelle del brano di oggi, “non temere soltanto abbi fede”, che Gesù rivolge a Giairo, il capo della sinagoga che lo aveva pregato di fare qualcosa per la sua figlioletta in fin di vita e che poi era stato raggiunto dalla notizia della morte della bambina. Due situazioni analoghe dal punto di vista emotivo: lo smarrimento di fronte allo scatenarsi degli elementi naturali, lo scoprirsi indifesi davanti all’ineluttabilità della morte di una persona cara. Ma nei due casi Gesù invita ad avere fede e a che questa fede soppianti la paura. C’è un legame tra il timore e la fede: si può dire che la fede subentra al timore, lo segue e lo sostituisce. Nella fede piena non c’è più paura, ma il timore e il reverente rispetto per ciò che è santo e che avvertiamo come infinitamente superiore a noi: questi atteggiamenti fanno parte dell’atto di fede.
Questa piccola frase, “non temere, soltanto abbi fede”(in greco non sono che quattro parole) contiene la grammatica fondamentale di questi racconti di miracoli. Nulla è più naturale, più umano, che essere assaliti dalla paura, addirittura dalla disperazione, quando si riceve la notizia che la propria figlia amata è morta. Ma proprio in quel momento risuona la parola del Maestro: “non temere, soltanto abbi fede”. Questo basta. Che cosa può significare davvero la fede, come radicale fiducia e atteggiamento di fondo che orienta ogni situazione e ogni emozione, spesso possiamo capirlo soltanto in situazioni estreme, laddove tutto è messo alla prova e sembra non esserci via d’uscita: una tempesta che rischia di farci naufragare, la morte di una persona amata…
Le parole dette da Gesù a Giairo possono di primo acchito sembrare soltanto rassicuranti, un invito a non lasciarsi sopraffare dal dolore. A ben vedere, in un contesto catechetico più ampio, queste parole invitano a un superamento: si tratta di attraversare la paura per raggiungere la pura fede. Per Marco fede è ciò che dà accesso alla nuova realtà resa presente in Gesù, cioè il Regno di Dio che si fa vicino. Non si tratta soltanto di avere fiducia, ma piuttosto di abbandonarsi totalmente: la fede apre alla libertà e all’onnipotenza di Dio. Per Dio tutto è possibile e questo è vero anche per colui che crede: ”Tutto è possibile per chi crede”(9,23). Nell’ora suprema dell’agonia nel Getsemani la fede di Gesù si esprime con l’abbandono fiducioso alla volontà del Padre: “Tutto è possibile a te”(14,36). Il cammino del credente, che Marco traccia nel suo vangelo, implica l’abbandono di ciò che è consueto, abituale, per entrare in una nuova realtà che si rivela nella persona di Gesù. Se uno ha la mente chiusa, il cuore indurito, è come chi ha orecchi ma non sente, occhi e non vede e così resta fuori, non entra in relazione e non ha accesso al mistero del regno (cfr. 4,11-12). Il credente invece è colui che ascolta, accoglie e partecipa della nuova realtà che in Gesù si presenta. Comprendiamo allora perché contrapposta alla fede ci sia la paura, che il discepolo deve superare affidandosi a Gesù, credendo il lui, certo che lui solo basti a dare nuovo senso anche alle situazioni apparentemente senza via di uscita. È la fede che ci è presentata nell’emorroissa: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. Una fede così vive di nulla, le basta la frangia di un mantello per essere sicura di entrare in relazione con Gesù e di essere guarita dal contatto con lui: “Figlia, la tua fede ti ha salvata, va in pace e sii guarita dal tuo male”.
Al centro del vangelo di questa domenica, inquadrata dalla vicenda di Giairo e della sua figliola ridonata alla vita, sta questa donna anonima, in partenza sofferente, impura, sterile, esclusa e per di più ridotta in miseria, che diventa il prototipo del vero credente. E’ la prima, ma non l’ultima, di queste figure di donna credente che ci propone il secondo vangelo: al capitolo 7 incontreremo la donna sirofenicia, alla fine del capitolo 12 la vedova povera che getta nel tesoro del tempio tutto quanto possiede, all’inizio della passione (cap. 14) la donna che versa sul capo di Gesù un prezioso vaso di profumo. Tutte donne anonime, e tutte esemplari: sono povere, umiliate, emarginate, sottovalutate, criticate; entrano in contatto con Gesù e Gesù si riconosce in loro; sembrano ben più vicine a Gesù, consonanti con lui, che i suoi stessi discepoli; testimoniano la loro fede e la esprimono con un abbandono incondizionato; infine proprio nella loro fede consiste la loro grandezza, sono donne capaci di un dono totale, di giocarsi tutto senza paura, dimostrano con la loro straordinaria libertà la loro sintonia con Gesù.
In questa prospettiva possiamo leggere anche l’invito alla generosità nella colletta a favore della Chiesa di Gerusalemme che Paolo rivolge ai fedeli di Corinto (seconda lettura). Se le fede davvero vince il timore e ci fa partecipare alla straordinaria, divina libertà del Signore Gesù, allora ci possiamo ben rendere conto che tutto il resto acquista un diverso significato e che solo nell’orizzonte di questa libertà trova il suo vero senso. “Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”.