Chiamati a riflettere la luce della misericordia

9 febbraio 2020

LETTURE: Is 58,7-10; Sal 111; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

Il simbolo della luce attraversa la liturgia della Parola di questa domenica. Il canto al vangelo riporta un versetto particolarmente significativo dove il Signore afferma di essere “la luce del mondo”, aggiungendo che chi lo segue otterrà “la luce della vita” (Gv 8,12). Per ben due volta al prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, menziona la luce come effetto dell’uomo che vive le opere di misericordia e nel praticare la giustizia. Senza dimenticare l’altro potente simbolo del sale, leggiamo nelle parole di Gesù tratte dal vangelo secondo Matteo come vi sia un legame molto stretto tra la luce che fa splendere la vita e le “opere buone” che portano gli uomini a glorificare il Padre nei cieli. Che poi si debba far attenzione a non fraintendere il senso della luce di cui parla soprattutto il vangelo, lo ricorda in termini inequivocabili San Paolo nella Seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi: la luce che fa splendere la vita degli uomini è da leggersi insieme al mistero del Cristo crocifisso.

La luce dei discepoli per la gloria di Dio

La pagina del profeta Isaia è tratta da un contesto segnato dalla “requisitoria” di Dio quanto al popolo infedele. In particolare, viene preso in considerazione il digiuno come atto tipicamente religioso tendente ad ottenere la benevolenza ed il favore divino per specificarne il senso gradito a Dio. Il digiuno gradito al Signore non consiste nel mortificare se stessi, ma nel vivere senza grettezza la compassione nei confronti dell’altro in condizione di privazione o di bisogno, senza trascurare i consanguinei. Nel testo ebraico ritorna il termine che significa “carne”, quasi a dire che il contesto in cui deve collocarsi l’azione di chi vuole corrispondere al desiderio di Dio deve abitare la fragilità umana. Chi pratica le opere di misericordia brilla di luce, come l’aurora che fende le tenebre dell’egoismo. Dal punto di vista del profeta, si prende cura di sé colui che fa proprio il dolore e l’indigenza del prossimo: “la tua ferita si rimarginerà presto”. È la misericordia che manifesta la giustizia e rende testimonianza alla “gloria del Signore”, assicurandosi la prossimità salvifica di Dio stesso. Impegnarsi per far sì che non ci sia nel proprio ambiente alcuna forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, così come alcuna forma di accusa ingiusta o di empietà, e lasciarsi coinvolgere dalla fame dell’indigente o dallo scoramento degli afflitti costituiscono la condizione per la propria luminosità che lo rende – dal punto di vista dell’integrità della Rivelazione – partecipe della vita divina. Per l’uomo di misericordia anche i possibili momenti di oscurità saranno segnati dalla presenza della luce: “la tua tenebra sarà come il meriggio”.

Nel vangelo Gesù dichiara riconosce nei suoi discepoli, che saranno beati proprio nel momento oscuro della persecuzione che subiranno a causa sua, “il sale della terra” e “la luce del mondo”. Sia il sale, sia la luce rappresentano elementi indispensabili nella vita dell’uomo. Il sale dice sapore (e pertanto sapienza), è un elemento del culto sacrificale (Lv 2,13; Ez 43,23), purifica e custodisce il cibo dalla corruzione. Secondo alcuni interpreti viene impiegato da Gesù per significare la sapienza della fraternità fino al sacrificio: il discepolo di Gesù, divenuto in Lui “figlio” del Padre, rende sapida e custodisce la terra con la propria esistenza. Ma il sale, che custodisce dalla corruzione, non è a sua volta immune da ogni forma di corruzione: vi è soggetto quanto alla possibilità di perdere il proprio sapore. Il cristiano “insipido” non può che essere respinto. I discepoli del Signore sono poi “luce” del mondo, di cui manifestano la bellezza. Tommaso d’Aquino, commentando i Salmi, ha una splendida espressione: gratia pulchrificat sicut lux. Come la luce, la grazia ricevuta dai discepoli che è all’opera nei loro gesti e nelle loro parole fa splendere il mondo della bellezza del Maestro. In questo modo, alla comunità fedele nella sequela, che sa dare frutti di “opere buone”, non mancherà di emergere come città sul monte. Il cristiano deve custodire la propria identità di figlio del Padre e discepolo del Signore Gesù, così facendo la sua esistenza risulterà efficace quanto alla missione. Chi si preoccupa dell’efficacia, tralasciando di prendersi cura dell’identità, rischia di chiudersi in ragionamenti auto-referenziali, mancando di confidenza nel Signore Gesù, fonte e culmine della luce partecipata ai discepoli. Fare attenzione all’identità significa anche discernere, alla luce della Parola, sulla “collocazione” della comunità e di ogni discepolo. In altri termini: accettiamo di essere posti su quel candelabro che per Gesù fu la croce oppure cediamo al nostro interesse accontentandoci di essere lampada “sotto il moggio”? Gesù portò a compimento la propria missione, lasciò risplendere la propria luce, manifestò con la sua massima “opera buona” la gloria del Padre suo lasciandosi appendere alla croce, per partecipare ad ognuno dei suoi fratelli la sua stessa vita divina fino al giubilo della risurrezione. Anche i discepoli, come Chiesa animata dallo Spirito Santo, sono chiamati a seguire il Maestro prendendo ogni giorno la croce, illuminando e rendendo più sapido il mondo.

La potenza di Dio nella debolezza dell’Apostolo: la luce secondo la Croce

Vi è un modo di ritenersi “luce” che non è proprio dei discepoli del Signore. Si può pensare d’illuminare perché ci si fonda su qualche capacità particolarmente sviluppata, per quanto umana… troppo umana! Nel caso della predicazione si potrebbe essere tentati di confondere “l’eccellenza della parola o della sapienza” con la “manifestazione dello Spirito e della sua potenza”, fondando più o meno inconsapevolmente il proprio annuncio su di sé e non sulla “potenza di Dio”. Tale auto-referenzialità fa tutt’uno con il sale che diventa insipido (mancando della sapienza che viene dall’alto) e con la lucerna posta sotto il moggio del proprio egocentrismo. Come nella Prima lettura l’autentica capacità d’illuminare proviene dall’apertura misericordiosa all’altro, così – a partire dall’insegnamento paolino – la predicazione illumina i fedeli se è aperta alla potenza di Dio manifestata dal Cristo crocifisso. Quanto alla causa, la luce del discepolo dipende dal Cristo “luce del mondo” (Gv 8,12), quanto all’effetto essa si manifesta nelle opere di misericordia, così come nell’annuncio fondato sulla potenza crocifissa del Figlio.

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