Quinta domenica del tempo pasquale, anno C, seconda lettura, dall’Apocalisse: “E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio”. Preparo uno straccio di predica in questa città che, invece, sorge dalla terra: la Gerusalemme di quaggiù, dalle pietre intrise del sangue dei profeti, di Gesù, dei tanti che si sono combattuti e uccisi credendo di scoprire fra queste rocce le loro radici. Penso ai palazzoni di cemento che sorgono in pochi mesi e schiacciano la città dei santuari e dei pellegrini, ormai definita down town e relegata in un angolo dalle mappe ufficiali. Penso alla città del libro, che vive in coloro che lo leggono, lo pregano, lo studiano o ci fantasticano sopra navigando fra le immagini sempre banali e corticali dei media da cassetta. È già meglio, però, la città del libro, perché le parole si stampano nell’anima, giuste o sbagliate che siano, e l’anima è ciò che maggiormente in noi assomiglia al cielo. Ma nelle ombre dell’anima si annida anche il serpente: nella Gerusalemme di quaggiù il serpente si chiama possesso. Ti fa credere che rubare un metro quadrato di pietra qui sia governare il paradiso. L’hanno creduto i gebusei, i Faraoni, Davide e Assalonne, Nabucodonosor, Ciro, i Lagidi e i Seleucidi, Pompeo, Erode, Vespasiano e Tito, Costantino ed Elena, Cosroe di Persia ed Eraclio imperatore, Omar al Mansur, Hakim d’Egitto, Goffredo e Saladino, Solimano il Magnifico, Lugi XIV e Napoleone, la Corona britannica e i Sionisti, gli Haredim… A tutti questa città vestita di pietra bianca e terra rossa ha fatto credere ad un amore eterno, a un possesso infinito, a radici che, affondando fra i sassi, raggiungevano il cielo. Forse per questo, Gerusalemme non ha un’architettura sua, ma un’accozzaglia di stili, sempre in rottura coi precedenti, sempre affannati a coprire le tracce di quel che c’era prima, perché il prima è sempre concepito come un dopo: tutti si considerano generati da queste pietre e vedono gli altro come usurpatori, venuti dopo. Dopo cosa? Dopo un mito, il proprio.
In questa città fu istituita nel 1890, ad opera del padre Marie-Joseph Lagrange, l’École pratique d’études bibliques, poi École biblique et archéologique française établie au Couvent de Saint-Étienne de Jérusalem. Fu istituita per studiare la Bibbia dove la Bibbia è nata. Fino a qualche tempo addietro, faceva fino ricordare le difficoltà incontrate dalla scuola e dal suo fondatore negli anni delle repressione antimodernista, sotto il pontificato di san Pio X. Da un po’ di tempo, si preferisce accentuare la sincera pietà del p. Lagrange, il suo spirito di umile sottomissione e l’indubbio intento apologetico della sua opera. Da sempre, si nasconde un po’ l’origine decisamente coloniale di questa come di tante altre fondazioni europee nella Gerusalemme del tardo periodo ottomano. Dai cannoni de l’Empereur agli scavi di Schliemann, religione ed archeologia, in Palestina, in Grecia, in Egitto, in Siria e in Iraq, proiettavano le varie correnti del pensiero “occidentale” nei luoghi favolosi delle sue origini, per preparare la spoliazione delle memorie e delle risorse di queste terre antiche, rapina inavveduta e crudele di cui ancora viviamo le conseguenze.
Un muro merlato racchiude, a pochi passi dalla Porta di Damasco, una tenuta di due ettari e mezzo in cui sorgono una improbabile ricostruzione della basilica eudossiana di Santo Stefano, un convento la cui biblioteca occupa due dei quattro piani (essendosi installata nelle vecchie strutture comunitarie divise in due da un mezzanino), un edificio per le aule e gli alloggi degli studenti e, infine, appartato in fondo al giardino, il complesso originario, un macello turco acquistato ed ampliato dai primi domenicani tornati a Gerusalemme nel 1872. C’è anche un’antica necropoli scavata nella roccia, cui è stata annessa la cappella funeraria dei frati. È là che riposano le spoglie di alcuni di quelli che hanno fatto la storia del convento e dell’esegesi cattolica: De Vaux, Abel, Tournay, Benoit, Boismard, Dreyfus, Murphy O’Connor… I loro resti sono infissi nelle rocce di questa città che li ha appassionati.
Passai la prima notte in questa santa città e in questo venerabile convento nel luglio del 1980. Ero stato inviato per partecipare ad una campagna di scavi archeologici in Galilea, presso il torrente che bevve il sangue dei quattrocento profeti di Baal uccisi da Elia. Arrivai verso sera, il mio francese d’allora non mi permise grandi presentazioni e mi fu data una branda in una grande sala invasa dalle zanzare. Essendo l’unico archeologo volontario arrivato quella sera, ebbi tutta per me l’Aula magna della scuola, completa di due sarcofagi samaritani. Il mattino seguente, prima di prendere l’autobus per il nord, lessi il breviario nell’atrio, accompagnando il canto del muezzin. Solo al termine del soggiorno feci una fugace visita alla città e ai suoi luoghi santi.
Cominciò così la presenza fisica in questa istituzione, ma nello spirito era storia cominciata anni prima. Liceale a Modena frequentavo la parrocchia di San Domenico. Apparve un giorno come animatrice una signora molto distinta: era modenese d’origine, ma educata in Francia. Tornata in patria, aveva sposato un noto commercialista, ed ora, rimasta vedova, aveva riallacciato i legami col Terz’Ordine, in cui aveva professato da giovane. Conoscendo le mie intenzioni e la passioncella biblica nata sulle Bibbie dei ragazzi e cresciuta grazie a un prof di religione di marca dossettiana, mi parlava dei domenicani francesi, dell’École biblique e della Bible de Jérusalem. L’edizione italiana della celebre Bibbia, ad opera dei Dehoniani, coincise col mio ingresso in convento. Degli zii me ne regalarono una copia in occasione della vestizione; negli anni seguenti il padre Bernardini di Bologna ne rifece due volte la rilegatura; ancor oggi, rileggendo le note prese a margine risento la voce dei professori d’allora. Fu padre Alce, allora provinciale, a ventilarmi la remota possibilità del completamento degli studi a Gerusalemme. La cosa prese corpo solo una decina d’anni dopo, quando padre Pierbon, dopo il Biblicum di Roma e cinque anni in Provincia, mi permise d’iscrivermi per il dottorato a Gerusalemme. Sbarcai dunque come studente nel pieno della prima Intifada; debbo un corposo capitolo della tesi alla clausura forzata in una città spettrale durante la prima guerra del Golfo; difesi la medesima poco prima degli accordi di Oslo e della grande illusione di pace. Quando l’illusione fu spenta nel sangue con l’assassinio di Yitzhak Rabin, la mia pace di giovane dottore era finita da un anno, perché la comunità di Saint-Étienne mi aveva eletto priore. Appena confermato da Roma avevo telefonato a mio padre, docente di Lettere antiche, lamentandomi del fatto che un doppio espatrio a scopo di studio (finire cioè in questo paese ove le parti in conflitto una sola cosa sanno: che gli “altri” devono andarsene – e in una casa molto francese) mi aveva valso quell’ingrato compito. Mi rispose olimpico: “Cosa credi che abbia dovuto fare io quando tu sei nato?”
Mio padre. Suo è stato l’insegnamento più utile, con lui tutto è cominciato davvero. Era nato nel 1920: aveva dunque compiuto tutta la sua formazione di latinista negli anni del Fascismo e dell’Impero. Leggeva Virgilio, Cicerone e Orazio perché lo appassionavano, ma fu testimone della rovina causata dall’uso politico e nazionalistico dei loro bei testi. Mi insegnò ad essere cosciente della distanza che ci separa dal passato: solo l’erudizione può superarla, ma nulla autorizza ad usarne le memorie per coprire del loro nobile manto le tensioni e l’avidità del nostro squallido oggi. Così, biblista e responsabile di comunità a Gerusalemme, feci tesoro di quella scuola d’umiltà sapiente. I vecchi della comunità, a incominciare dal mio direttore di tesi padre Boismard, avevano conosciuto le guerre della prima metà del ventesimo secolo e gli orrori del conflitto in questa terra: alla loro scuola imparai che se il libro è il libro di Dio, la distanza che permette di non farne la giustificazione d’ogni atrocità si chiama preghiera, senso di quell’assoluto personale che attraversa le lettere vergate da piccoli nulla chiusi nel tempo e nello spazio. Nel cimitero del convento ci sono molti nomi di giovani frati, uccisi dalle precarie condizioni igieniche e sanitarie d’inizio ventesimo secolo e dall’applicazione troppo immediata degli scritti medievali sulla vita religiosa. Restaurazione, o riforma: spesso illusione che costringe dei corpi viventi in lettere morte.
Dall’inizio del millennio, passo qui ogni anno qualche mese, insegnando e facendo ricerca, nei limiti delle mie possibilità. Vedo che incomincio a fare il vecchio, anche perché sono arrivate nuove forze e c’è tanta speranza. Studiare la Bibbia dove è nata è forse meno necessario oggi che un secolo fa. Studiarla facendo intorno ad essa scuola d’intelligenza e comunità d’intenti con persone d’ogni stirpe, qui, al centro di violenze d’origine antica, è forse il segno che, per rendersi credibile, la Gerusalemme del cielo chiede ancora ai figli di San Domenico.
Post scriptum: nella predica ho parlato d’altro.
fra Paolo Garuti