Una meditazione sull’esperienza nel convento di Madonna dell’Arco (NA), sede del noviziato italiano
Quando stavo per entrare in noviziato, un frate domenicano a cui mi ero rivolto per avere qualche consiglio mi ha detto che i primi tempi della sua vita religiosa erano stati “tutte domeniche” e che poi, successivamente erano arrivati anche i lunedì, i martedì e i venerdì…
A quasi metà del mio noviziato al convento di Madonna dell’Arco, mi sto rendendo conto di quanto fosse vera quella che, al momento, mi sembrò solo una battuta ad effetto, soprattutto adesso che sto sperimentando giorno per giorno la vita religiosa che mi sono sentito chiamato a vivere.
Una cosa di cui mi sono reso conto è che, “tutte domeniche” è qualcosa di più di “happy days”, magari di gioia spensierata, ma molto di più.
Nel suo diario Santa Faustina Kowalska descrive così la sua visione di Gesù Cristo nello splendore pasquale: “Le piaghe delle mani, dei piedi e del costato non erano cancellate, ma risplendenti”. Nel mio piccolo, sto sperimentando che anche le difficoltà che possono esserci all’inizio di un percorso di discernimento vocazionale e spirituale fanno parte della gioia della vita comune e della conoscenza della vita dei frati: un anno in cui interrogare e interrogarsi, in cui fare una reciproca conoscenza nella carità, sperimentando come la condivisione sia il luogo in cui la contemplazione, lo studio, la preghiera, così come la nostra esperienza di apostolato, trovano la loro espressione più bella.
C’è un passo degli Atti degli apostoli che mi ha molto colpito: “Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e considerando che erano senza istruzione e popolani, rimanevano stupefatti riconoscendoli per coloro che erano stati con Gesù” (At 4,13). Mi piace molto pensare così alla vita religiosa, come un’esperienza che ci porta nelle cose di ogni giorno, come nella missione, a testimoniare con la vita il nostro stare con Gesù.
Molti Padri della Chiesa, come San Benedetto, hanno usato l’immagine della scala per illustrare le tappe della vita spirituale: San Benedetto parla di una discesa, nell’umiltà, Evagrio Pontico e San Giovanni Climaco descrivono il cammino ascetico in termini non troppo dissimili. Guigo il Certosino racconta della sua contemplazione che sembra sbocciare nelle ore occupate dal lavoro manuale. A me è venuta in mente un’immagine che per ovvi motivi non poteva venire in mente né a San Benedetto né a San Giovanni Climaco ed è quella del tapis roulant. E mi è venuta in mente perché in quel momento stavo faticando sopra tapis roulant. Al di là dello scherzo, quello che intendo dire è che fare esperienza, nella vita come nella fede, è ciò che fa la differenza fra qualcosa che si è appreso o udito e qualcosa che, invece, si ha vissuto. Perfino una corsa sul tapis roulant può essere una buona immagine per rappresentare le prove che il discernimento spirituale presenta: prima di tutto, bisogna mettersi in cammino e in ascolto, ossia due atteggiamenti che coinvolgono anima e corpo. Bisogna regolare il passo: se si va troppo forte si finisce contro la sbarra dei comandi, se si va troppo piano, si rischia di cadere, se ci si ferma si viene spinti indietro. In più il tapis roulant può costringerci a cambi di ritmo improvvisi, a volte bruschi, dunque ad essere vigilanti: può esserci una salita o un’accelerazione per cui bisogna reggere il passo o un repentino rallentamento che mette alla prova la capacità di essere pazienti. E, per quel poco che posso aver capito in questi mesi di noviziato, sono cose che possono capitare anche nella vita spirituale.
L’elemento che sta caratterizzando in maniera significativa questo tempo di noviziato è il silenzio. C’è il silenzio esteriore, nella stanza, nello studio, nella preghiera, nella liturgia e poi quello necessario per costruire quella che Santa Caterina chiama la “cella interiore”. Per me il silenzio è lo spazio che mi ha dato la possibilità di riflettere su quanto, soprattutto all’inizio di un cammino come questo, la vera differenza non la fa quanto riusciamo a fare ma, in prima battuta, quanto riusciamo a togliere. Ci pensavo ammirando la straordinaria statua del Cristo velato: quello che fa la differenza fra un blocco di marmo e un’opera straordinaria non è quello che viene aggiunto, ma quello che viene tolto. Dal momento in cui, con la vestizione, abbiamo ricevuto l’abito domenicano, ho sentito davvero la gioia e la responsabilità, la gratitudine di essere stato accolto con carità, rispetto e fiducia con la possibilità di vedere come quello domenicano non sia solo un ideale teorico: la vita comune regolare, l’obbedienza, la spiritualità di un Ordine fondato per la predicazione e la salvezza delle anime, prendono materialmente corpo nella comunione e nella libertà.
Così, mentre fatico e sbuffo sul tapis roulant del mio cammino vocazionale, so per certo di non essere come l’asino che corre dietro ad una carota irraggiungibile, ma come il figlio in cammino verso la casa del Padre misericordioso, in attesa che questi mi corra incontro, mi baci e mi abbracci nella gioia della vita eterna.
Intanto sono “tutte domeniche”. Anche quando fuori piove.
fra Giovanni Ruotolo