30 maggio 2021

Non è bene che Dio sia solo

LETTURE: Dt 4,32-34.39-40; Sal 32; Rm 8,14-17; Mt 28,16-20

Come ebbe a scrivere Gilbert Keith Chesterton in Ortodossia, parafrasando rispettosamente una ben nota pagina del libro della Genesi, “non è bene che Dio sia solo”. Secondo la rivelazione compiutasi nella persona di Gesù Cristo, infatti, il Dio che è agape dev’essere pensato come unità d’amore nel rispetto delle differenze. Tale verità è espressa, forse al meglio della nostra possibilità, dal dogma trinitario promulgato dalla Chiesa per esprimere – senza errore – la realtà del Trinitas-Deus: Padre e Figlio e Spirito Santo. La prima lettura, tratta dal Deuteronomio, ci ricorda con forza che vi è un solo Dio, in cielo e sulla terra. Se qui siamo ancora nell’orizzonte accessibile alla fede ebraica, con la pericope che chiude il vangelo secondo Matteo riceviamo l’annuncio della pienezza della rivelazione. Con la passione, morte e risurrezione del Figlio, i discepoli – in attesa del dono dello Spirito Santo – ricevono da Gesù stesso il mandato di fare discepoli tutti i popoli, «battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19b). La celebre pagina della lettera ai Romani, ci annuncia «lo Spirito che rende figli adottivi» (Rm 8,15b) e il mistero per cui «se siamo figli siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17a).

Dopo aver contemplato il mistero dell’Ascensione, nel quale l’umanità del Cristo viene accolta permanentemente nella circolazione della vita intratrinitaria, e dopo aver fatto memoria del dono dello Spirito Santo che anima la Chiesa affinché possa essere sacramento dell’unità del genere umano, la solennità della ss. Trinità ci consente riflettere sul nostro effettivo coinvolgimento nella vita divina. Attraverso la fattiva risposta all’invito di Gesù Cristo, la Chiesa continua a generare nel tempo nuovi figli attraverso l’amministrazione del sacramento del battesimo. Attraverso il rito battesimale, infatti, per opera dello Spirito Santo che rende divinamente efficace il segno dell’acqua, veniamo immersi nella morte e risurrezione del Signore Gesù fino a parteciparne sacramentalmente. È in questo modo che lo Spirito Santo ci rende figli adottivi del Padre e membra vive della Chiesa. Con queste parole esprimiamo, in altri termini, quello che – a partire dalle parole di Gesù nei discorsi d’addio riportati dal quarto vangelo – la tradizione teologica ha chiamato inabitazione trinitaria. Questo mistero, che fa tutt’uno con il doppio legame istituito nel disegno della salvezza tra incarnazione e divinizzazione, ci aiuta a pensare insieme la prima e la seconda lettura proposta per questa solennità dalla liturgia della Parola. Da un lato infatti, il mistero dell’inabitazione trinitaria nell’anima del giusto, apice della vita in Cristo, porta a compimento le parole di Mosè tratte dal Deuteronomio relative alla singolare prossimità di Dio al popolo di Israele: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?» (Dt 4,32-34). Espressioni forti che riguardano la singolarità della rivelazione fatta ad Israele, ma ancor di più del peculiare rapporto che l’unico vero Dio ha con quello che egli ha eletto il suo popolo. Le parole che troviamo all’inizio del capitolo da cui sono stati selezionati i versetti da proclamare come Prima lettura risultano, in questo senso, illuminanti: «Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). Dall’altro, l’inabitazione rende ragione di quanto scrive san Paolo ai Romani: «voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16).

Vi è un modo di mostrare la rilevanza del mistero trinitario nel contesto delle urgenze della nostra vita contemporanea? Alcuni tra i teologi più avvertiti per un verso hanno denunciato il dissolversi dei legami interpersonali nell’attuale società consumista, motivato del diffondersi di un individualismo narcisista sempre più corrosivo e, per l’altro, hanno indicato una via per la rigenerazione del legame sociale nel mistero trinitario e nell’opera della grazia che opera in vista dell’efficace coinvolgimento in esso. Evidentemente la Chiesa, animata dallo Spirito Santo, viene a costituire il soggetto storico di tale rigenerazione. Se infatti non è bene che l’uomo sia solo (Gn 2,18), possiamo forse azzardarci a riconoscere il fondamento di quest’affermazione del Signore nel libro della Genesi proprio nello stesso mistero trinitario, poiché l’uomo stesso è stato creato a immagine e somiglianza di Dio stesso che è Padre e Figlio e Spirito Santo. In questo senso, la consapevolezza che l’uomo, nel rapporto con i suoi simili, è stato concepito e creato per vivere secondo la logica dell’unità-nella-differenza sostiene la speranza dei migliori tra i nostri contemporanei che sono impegnati nella ricerca di un’inversione di tendenza quanto al diffondersi dell’individualismo auto-referenziale in vista di una ri-generazione del tessuto relazionale in forza dell’instancabile “lavoro” della grazia divina.

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