I santi: uomini e donne delle Beatitudini

Letture: Ap 7,2-4. 9-14; Sal 23; 1Gv 3, 1-3; Mt 5, 1-12a

Noi oggi contempliamo questo mistero: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, noi siamo in comunione gli uni con gli altri, chiesa pellegrinante con chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore (E. Bianchi). Se la prima lettura (Ap 7,2-4. 9-14) ci immerge nella visione esaltante della moltitudine immensa degli eletti che stanno dinanzi all’Agnello – i battezzati segnati dal sigillo dell’appartenenza a Dio ai quali nessuno potrà recare o male, la seconda (1Gv 3, 1-3) ci chiarisce il fine della nostra esistenza: contemplare Dio non più attraverso il velo delle cose create, ma viso a viso, come già avviene per i santi che oggi festeggiamo. Infine, il Vangelo di Matteo (Mt 5, 1-12) ci rimanda all’origine terrena di questa inaudita felicità e impensabile destino: noi siamo quel popolo delle beatitudini che nelle parole benedette del loro Maestro hanno riconosciuto l’inizio e il segno della vita cristiana.

La proclamazione del vangelo delle Beatitudini nella solennità di Tutti i Santi serve a ricordarci che per giungere alla santità è necessario integrare pienamente nella nostra vita questo insegnamento di Gesù. L’evangelista Matteo lo presenta come il primo grande discorso di Gesù nel quale egli ha come voluto riassumere tutti i grandi temi del suo messaggio. Questo testo è talmente ricco e pregnante che ogni volta che lo meditiamo o ci apprestiamo a commentarlo è inevitabile che ci si soffermi su l’uno o l’altro dei numerosi aspetti o particolari. Somiglia ad un ammirabile diamante del quale non possiamo che vedere una sfaccettatura alla volta.

Una prima considerazione che va fatta riguarda il soggetto delle beatitudini: esse sono tutte al plurale. Non si tratta, allora, di una ricetta cui attenersi con estremo rigore utile ad ottenere la salvezza eterna personale o privata, ovvero una lista di situazioni infauste e dolorose che dobbiamo subire quaggiù per essere sicuri di andare in cielo dopo la morte. Si tratta, invece, di una missione data da Gesù ai suoi discepoli in vista della salvezza di tutta l’umanità. L’inizio del testo di Matteo è degno davvero di un grande scenografo o narratore: c’è un’enorme folla che segue con tenacia, a piedi, Gesù, mentre quest’ultimo si siede come un maestro su una montagna di fronte alla folla. Allora i suoi discepoli gli si accostano ed egli rivolge loro un solenne messaggio. Al termine (nei versetti che seguono immediatamente il brano previsto) conclude dicendo: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? […] Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte» (Mt 5,13-14). Si tratta dunque dell’affidamento di una missione rivolta alla folla stipata sul monte. A questa lettura ci soccorre il brano  tratto dall’Apocalisse nel quale si parla di salvezza universale, di una salvezza promessa ad una folla immensa di ogni nazione, razza e lingua e che: «gridava[no] a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». E’ qui racchiuso, come in suprema sintesi, il tema maggiore del Concilio Vaticano II: la Chiesa esiste non per se stessa ma per il mondo intero.

Inoltre, non va dimenticato che Gesù rivela fin da questo momento ciò che sarà l’oggetto centrale di tutta la Sua predicazione nel corso dei tre anni della sua vita pubblica: il Regno di Dio. Non si parla, dunque, di una ricompensa riservata dopo la morte a coloro che avranno sofferto quaggiù sulla terra: si tratta, invece, di un Regno che durerà certamente per i secoli dei secoli ma che ha un umile inizio quaggiù, nell’umile terra, tra poveri e umili. La prima e l’ultima beatitudine, infatti, sono al presente: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli», e, di seguito: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Si tratta dunque del Regno del quale Gesù una volta aveva detto: «Ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!» (cfr. Lc 17,21). Nelle bellissime “Omelie sulle Beatitudini”, Gregorio di Nissa, soffermandosi a commentare “Beati i puri di cuore”, fa una interessante affermazione. Egli spiega che, a suo parere, quando Gesù proclama: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» non vuol dire che “i puri di cuore” avranno un sguardo purificato che permetterà loro di vedere Dio là in alto, nei cieli, fuori di se stessi, bensì che saranno in grado di percepire l’immagine di Dio che è in loro stessi (cfr. Omelia VI). E’ questo un tema molto caro a tutti i padri della chiesa, greci e poi latini: noi siamo stati creati a immagine di Dio: ora, questa immagine che è in noi come un seme di vita divina, che è sempre là, non chiede altro che di poter crescere fino alla sua piena misura, malgrado la nostra negligenza o i nostri peccati abbiano potuto ricoprirla di polvere o di fango.

Il cammino verso la santità non consiste nel fare gesti o azioni straordinarie che ci faranno guadagnare il cielo dopo la morte; consiste piuttosto nel lasciarsi gradualmente trasformare a immagine di Dio, lavorando con Gesù e come Gesù per l’avvento del suo Regno, un Regno nel quale coloro che piangono saranno consolati, coloro che hanno fame e sete di giustizia saranno saziati. Nella tradizione della vita religiosa – fin dalle prime esperienze anacoretiche e cenobitiche – la formazione del vocato consiste proprio in questo: una trasformazione graduale ad immagine di Cristo fino alla morte, utilizzando quei mezzi messi a disposizione dall’ascesi monastica; ora, ciò vale anche per tutti i cristiani: divenire, giorno dopo giorno, simili al nostro Padre celeste, vivendo nella logica delle Beatitudini.