Alla sorgente della gioia
1 novembre 2020
LETTURE: Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
Un tema che ricorre, nella liturgia della solennità di oggi, è quello della Gerusalemme celeste. Si tratta di un’immagine sviluppata in particolare nel libro dell’Apocalisse e che ha avuto una straordinaria importanza nella storia dell’arte e dell’architettura sacra oltre che nella liturgia. Se le letture alludono ad essa, è però nel prefazio e poi, oltre la messa, nella Liturgia delle ore della festa, che questo tema emerge. Si legge infatti nel prefazio: «Oggi ci dai la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre, dove l’assemblea festosa dei nostri fratelli glorifica in eterno il tuo nome. Verso la patria comune noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino». È un’immagine di grande impatto, festosa. I testi scritturistici e liturgici che ne parlano provano a descriverla come la dimora di luce, di calma, di pace, ma anche di festa e di gioia. Parallelamente, i caratteri fisici che le vengono attribuiti servono a sottolinearne la ricchezza, l’abbondanza di beni, ma anche la quiete: è fatta d’oro e di pietre preziose, ma è anche un luogo di acque che scorrono, di alberi, di fiori e di frutti.
Tutti questi testi sembrano insomma sottolineare la tensione verso questa patria celeste e futura, verso ciò che deve ancora venire: essa, come dice ancora il prefazio, è la «patria», verso cui è bene che «ci affrettiamo». Là ci attendono tutti i santi, che festeggiamo oggi: quelli – come ormai sappiamo bene – già canonizzati dalla Chiesa e proposti al culto, e quelli che hanno vissuto la loro vita di grazia nel nascondimento, ma di cui Dio ben conosce i meriti. Essi sono i «centoquarantaquattromila» segnati con «il sigillo del Dio vivente» – una cifra simbolica (dodici per dodici per mille), a indicare la perfezione ma anche la moltitudine. Anche la prima lettera di Giovanni accenna a questa tensione: «Ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è». Così anche le beatitudini, che descrivono quelli che – appunto – sono i «beati», coloro che hanno salda la speranza sulla parola del Signore, presentano una formulazione per lo più al futuro: gli afflitti saranno consolati, i miti erediteranno la terra, quelli che hanno fame e sete della giustizia saranno saziati…
Verrebbe da chiedersi, se i santi sono davvero coloro che hanno rinunciato a vivere ora, per assicurarsi la gioia futura della Gerusalemme futura: ora poveri, afflitti, miti, affamati, per poter poi godere la gioia del cielo. Bisogna insomma confrontarsi con l’obiezione dell’inquietante, geniale figura del pensatore che con l’anno della sua morte ha aperto un secolo terribile – Friedrich Nietzsche (†1900) –: «Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! […] Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi» (Così parlò Zarathustra, «Prefazione di Zarathustra»). Questo sono dunque i santi? Figure tristi che hanno barattato la realizzazione terrena, per un sogno futuro; la carne e il sangue per un’impalpabile promessa?
In realtà i santi sono uomini con un grande desiderio di Dio, e cioè con il desiderio di una felicità senza fine. Uomini che cercano la felicità, ma hanno ben compreso che la loro volontà di potenza non basterà a raggiungerla; hanno compreso dove sta la felicità vera. È uno di loro a darne una testimonianza particolarmente impressionante: Francesco d’Assisi, in quel fioretto in cui gli studiosi riconoscono le tracce della genuinità della figura storica del santo, che va sotto il nome della «perfetta letizia», raccolto dai primi compagni. Disse un giorno Francesco a frate Leone – uno di questi –, che se tutti i maestri, i grandi teologi di Parigi (il centro di studio più importante, all’epoca) fossero divenuti frati Minori, quella non era comunque la perfetta letizia; e nemmeno se fossero diventati frati tutti i prelati e re; e se i suoi compagni fossero andati oltre il mare, e avessero convertito tutti gli infedeli, nemmeno. Che cos’è, allora, perfetta letizia? Io e te, Leone – prosegue Francesco –, torniamo da Perugia; e fa freddo, un freddo tale che si formano ghiaccioli sull’orlo del saio, e picchiano contro le nostre povere gambe, fino a farle sanguinare; bussiamo alla porta del nostro convento, chiedendo di entrare, e non lo permettono; e noi insistiamo, e diciamo che siamo Francesco e Leone, e quelli rispondono: «Non abbiamo bisogno di te, perché sei semplice e illetterato». Conclude il santo di Assisi, che se per amor di Dio «avrò avuto pazienza, e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia, e qui è la vera virtù e salvezza dell’anima».
Francesco sa che la felicità, la pace, la gioia, è ciò che viene dal fondo dell’anima, una volta che si sia scavato attorno a questa sorgente e se ne sia pulito il margine per far sì che la grazia ci riempia di vita e di luce. Non trascorrendo da un possesso all’altro, da un successo all’altro, senza trovare nulla che ci riempia mai abbastanza, troveremo ciò che cerchiamo, ma affidandoci a Dio: nell’amore del Padre, attraverso la mediazione del Figlio, per avere il dono dello Spirito.
Le Scritture che abbiamo ascoltato, in realtà, a bene vedere indicano già questa risposta. Perché a ben vedere, fra le beatitudini di Matteo, la prima e l’ultima sono formulate al presente, nella medesima declinazione: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. […] Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Il regno è dei cieli, perché è dai cieli, ma è già sulla terra, perché ve lo ha portato Cristo: perciò può dire la prima lettera di Giovanni, nel passo citato poc’anzi: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio». (Gv 3,2a). Come dice la lettera agli Efesini (2,19), noi siamo «concittadini dei santi». Nell’attesa di godere pienamente della loro compagnia, seguiamone la via, perché questo è già fin d’ora il modo di vivere fino in fondo la nostra umanità: per usare una bella formulazione del Concilio Vaticano II, «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (Gaudium et Spes, 41).
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