Per mettere a fuoco il senso di Fratelli tutti, l’ultima enciclica di papa Francesco dedicata alla fraternità e all’amicizia sociale, ho trovato di grande aiuto le seguenti parole di san Paolo VI pronunciate in occasione di un appello rivolto ai cristiani affinché s’impegnino nell’edificazione della civiltà dell’amore:«la patologia sociale è il primo campo del nostro cristiano interesse. Bisogna avere sensibilità ed amore per l’umanità che soffre, fisicamente, socialmente, moralmente» (Udienza generale, 31 dicembre 1975). È a partire da questa sensibilità, maturata nell’ascolto orante del Vangelo e unita ad una fiduciosa speranza verso ogni donna e ogni uomo di buona volontà, che Fratelli tutti invita ad impegnarsi per realizzare il sogno di un’umanità aperta e fraterna, in cui l’amore per il prossimo possa effettivamente estendersi universalmente senza perdere nulla dell’intensità ciò che sperimentiamo localmente. Ricordandoci che siamo «viandanti fatti di una stessa carne», Papa Francesco intende suscitare in tutti «un’aspirazione mondiale alla fraternità» (FT, 8), proponendo – a partire dalla parabola del “Buon samaritano” – uno stile relazionale ispirato alla carità sociale e politica (FT, 180).
Riprendendo l’insegnamento di Benedetto XVI sulla carità come principio delle macro-relazioni (Caritas in veritate, 2), Francesco sviluppa il concetto di carità in senso socio-politico, ricordando che questa «presuppone di aver maturato un senso sociale che supera ogni mentalità individualistica» mentre «oggi si pretende di ridurre le persone a individui, facilmente dominabili da poteri che mirano a interessi illeciti» (FT, 182). L’individualismo è forse quel fenomeno socioculturale che più rappresenta la multiforme “patologia sociale” diagnosticata dal Pontefice: «nazionalismi chiusi esasperati, risentiti e aggressivi» (FT, 11), «perdita del senso della storia», «bisogno di consumare senza limiti» e «individualismo senza contenuti» (FT, 13), «nuove forme di colonizzazione culturale» che operano per «dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di senso o alterare le grandi parole» (FT, 14), «meccanismi di manipolazione delle coscienze» (FT, 45)… Papa Francesco descrive in questo modo un orizzonte conflittuale, costituito da interessi contrapposti che operano all’interno di giochi a somma zero, il quale – in assenza di un progetto comune – non può che preludere a nuove guerre (FT, 17). Per uscire da questo scenario occorre, in primo luogo, ricomporre lo scisma tra il singolo e la comunità (FT, 31), recuperando «la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni» (FT, 36). L’espressione forse più evidente della malattia sociale in atto, supportata pretestuosamente «tanto da alcuni regimi populisti quanto da posizioni economiche liberali» (FT, 37), fa tutt’uno con l’opposizione all’accoglienza dei migranti. Dopo aver riaffermato con Benedetto XVI il «diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra» (FT, 38), l’attuale Pontefice – pur ammettendo che l’ideale sarebbe quello di creare nei Paesi d’origine le condizioni per una vita dignitosa – riconosce che: «finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni esser umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona». Dopo aver mancato nell’aiutare i Paesi più poveri, non vi è alcuna ragione per quelli più ricchi e sviluppati di rifiutarsi di «accogliere, proteggere, promuovere e integrare» (FT, 129).
La fraternità aperta costituisce così l’alternativa all’alleanza liberal-populistica che promuove una sorta di individualismo nazionalistico, orientato alla massimizzazione del profitto dei più forti: è sempre l’«individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli» (FT, 43). Se una mentalità xenofoba, chiusa e autoreferenziale offende l’umanità di ogni uomo, papa Francesco ammonisce giustamente: «è inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi atteggiamenti, facendo a volte prevale certe preferenze politiche piuttosto che profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore e della religione, e la legge suprema dell’amore» (FT, 38). Se l’enciclica si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, la critica rivolta alla schizofrenia di certi credenti ribadisce che la fede, debitamente pensata, deve orientare lo sguardo e l’azione sulla realtà nella sua integralità, escludendo che si possa essere programmaticamente discepoli di Gesù durante la santa Messa e fautori del “prima per me e per gli altri se ce n’è” alle urne. Senza questa comprensione del rapporto tra fede e ragione non sarebbe possibile onorare quel ruolo pubblico della Chiesa che consiste nel promuovere, in nome della carità politica e sociale, l’uomo e la fraternità universale (FT, 276).
Così come questo servizio ecclesiale risulterebbe del tutto “estrinseco”, se non si condividesse la concezione antropologica – più volte ribadita da papa Francesco – che l’uomo è fatto per «la pienezza che si raggiunge solo nell’amore» (FT, 68). È attraverso questa prospettiva che il Vescovo di Roma riporta su un piano evangelico le “parole d’ordine” della Rivoluzione francese. Mentre la modernità, obliterando la fraternità, è giunta al conflitto tra libertà e uguaglianza, il recupero della fraternità permette di dare respiro alla libertà, orientandola nuovamente all’amore oltre la mera autonomia, e di rendere concreta l’uguaglianza (FT, 103-104). «Ma l’individualismo radicale» mi permetto di sottolineare col Papa «è il virus più difficile da sconfiggere» (FT, 105).
“Nostro Tempo” 11 ottobre 2020
fra Marco Salvioli
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