1 dicembre 2019

L’Avvento, tempo di cammino e di attesa

Letture: Is 2,1-5; Sal 121; Rm 13,11-14; Mt 24,37-44

Era convinzione ferma e diffusa presso i primi cristiani che Gesù sarebbe tornato, finalmente, un giorno, abbastanza presto, come giudice dell’universo per chiudere definitivamente il rotolo lunghissimo delle vicende cosmiche, scrivendo anche la parola “fine” in fondo alla tanto dolente e contraddittoria storia dell’umanità. In particolare, l’intero primo secolo venne vissuto, giorno dopo giorno, come una lunga e fervida attesa, l’aspettazione di un Avvento: il ritorno, appunto, dell’amato Signore. Inoltre, da quanto ci è dato sapere, queste primitive e giovani comunità non erano neanche molto interessate a inventarsi e costruire strutture ecclesiali, come accadrà invece in seguito; come non erano interessate ad elaborare una scansione del tempo secondo un preciso calendario liturgico nel quale collocare la memoria dei grandi eventi della vita del Cristo. In sintesi, i primi cristiani erano persuasi che il tempo, quello che era loro dato di vivere – tempo reale, dunque, e non simbolico – era come un arco teso nella direzione del compimento definitivo della storia. Avevano torto, evidentemente, ad aspettare la fine del mondo… Ma fu un errore in qualche modo felice. Per i primi cristiani, in effetti, il tempo come realtà diciamo “materiale” non aveva molta importanza. Ciò che era ritenuto importante era la modalità con la quale questo tempo veniva assunto e abitato, ovvero l’atteggiamento interiore con il quale veniva vissuto. In altre parole, ciò che era fondamentale non era la mera successione dei giorni e degli anni, ma la direzione verso la quale la storia si orientava. Ed essi stessi erano interiormente orientati in quella direzione. Ecco una prima lezione: l’Avvento non è in realtà solo un periodo di quattro settimane durante le quali noi leggiamo alcuni testi biblici alquanto diversi da quelli del resto dell’anno liturgico, l’Avvento è come uno sguardo, un esercizio di discernimento e di lettura della nostra vita, fatto senza distrarsi, cercando di andare con la nostra vista al di là del nostro naso e tentando di ravvisare in ciò che accade i segni e le tracce dell’opera di Dio nella storia e del fine verso il quale essa si dirige. Quando nel quarto secolo le persecuzioni cessarono e divenne normale essere cristiani, la Chiesa cessò di vivere sotto una tenda e si mise a costruire templi di pietra: i cristiani, così, si abituarono a vivere il tempo presente come ultimo e definitivo, come un progetto già realizzato. In questo modo il tempo cessò di essere un “Avvento”… Proprio per questo motivo la liturgia dell’Avvento diventa allora importante perché ci mette in guardia dal pericolo di installarci nel “momento presente”, di stazionarci nell’hic et nunc, ci libera dalla tentazione di circoscrivere il senso degli accadimenti, interiori ed esterni, in una dimensione di immobilità e di soddisfazione. L’Avvento viene a richiamarci verso una dimensione di cammino e di attesa, mai stanchi di restare fedeli alla promessa  antica di un Arrivo: «Tu che per lunga promessa / vieni ed occupi il posto / lasciato dalla sofferenza … / vieni ed entra, attingi a mani basse» (Mario Luzi, Come tu vuoi).

Ora, tenendo fermo quanto detto ci sarà più facile comprendere il Vangelo con il quale si apre la liturgia di questa prima domenica dell’Avvento. Quando questo testo fu scritto, la persecuzione di Nerone era già terminata e molti cristiani, tra i quali quasi certamente Pietro e Paolo, erano caduti vittime dell’Anticristo. Gerusalemme era stata devastata, molti ebrei erano stati uccisi e quelli che erano rimasti, si rassegnarono ad una nuova deportazione. Tutti questi eventi costrinsero i cristiani a riflettere più profondamente che mai sul senso della storia e a rileggere nell’attualità ciò che avevano preannunziato i profeti e che avevano tramandato in alcuni testi, come quello odierno di Isaia (prima lettura). Matteo scrive avendo davanti a sé gli eventi drammatici contemporanei e cerca di individuare e di suggerire l’atteggiamento sapiente che questi avvenimenti domandano per essere correttamente compresi. Egli fa appello, così, ad una attitudine di “vigilanza” e di “attenzione”: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà … Perciò anche voi tenetevi pronti perché nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».  E’ giunto il tempo di fare come Noè che vide arrivare il diluvio e di conseguenza fece i suoi preparativi, nell’insipienza dei suoi contemporanei (cfr. Gen 7, 11-23). L’evangelista Matteo organizza il suo Vangelo attorno a raccolte di diversi  discorsi di Gesù. Ad esempio, all’interno di quella noi chiamiamo la sezione del “Discorso della montagna” – del quale le Beatitudini sono un po’ come il cuore -,  egli raggruppa una serie di insegnamenti del Signore sulla preghiera, l’elemosina, il digiuno e su altri temi importanti (cfr. Mt 5-7). Ancora: al termine, Matteo, riporta, uno dopo l’altro, una serie di discorsi di Gesù sulla fine di ogni esistenza umana, a partire dalla sua (cfr. Mt 24-25). Ora, proprio in questi discorsi, solitamente definiti “escatologici” un tema che ritorna frequentemente, è quello, appunto, della vigilanza. Ma è, questa, una parola che nell’uso corrente ha molto perduto di forza e di significato. Oggi, infatti, essere “vigilanti” o “vigili” significa diffusamente essere attenti, fare attenzione. Ma la parola usata da Gesù indica il “restare svegli”, “essere profondamente presenti”  di fronte a ciò che accade. Al termine del brano odierno, Gesù dice che se un padrone di casa sapesse a che ora arriva il ladro, egli resterebbe sveglio e non si lascerebbe scassinare la casa. Subito dopo troviamo la parabola del servitore fedele e poi quella delle dieci vergini che si conclude con la seguente raccomandazione : « Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora » (Mt 25, 13). E soprattutto c’è nel capitolo successivo la scena del giardino del Getsèmani nella quale Gesù domanda per ben due volte ai tre apostoli, dai quali si era fatto accompagnare, di restare svegli e di pregare con lui: «Vegliate e pregate» ( Mt 26,41). Ma poiché essi cedono al sonno Egli finisce per dire loro, quando ritorna  per la terza volta : « Dormite pure e riposatevi » (Mt 26, 45) . Restare svegli per i tre apostoli che accompagnano Gesù, significa in questa situazione essere presenti, dimorare con una presenza attenta, al suo dolore e alla sua preghiera, attenti al dramma che egli sta vivendo in quel preciso momento e che gli fa sudare  gocce di sangue . Nel momento storico nel quale questi capitoli furono scritti, come abbiamo anticipato, le persecuzioni contro i cristiani erano una realtà e la città di Gerusalemme era stata devastata con conseguente deportazione di molti giudei. Allora, tutti questi avvenimenti costrinsero i cristiani a riflettere in modo più attento e approfondito che mai sul senso della storia e a rileggere con chiave sapienziale e attuale le profezie veterotestamentarie. Quindi, i discorsi escatologici degli ultimi capitoli di Matteo non annunciano la fine dei tempi come tante volte li si è compresi e interpretati. Essi sono, invece, pieni di speranza come colma di speranza è la profezia di Isaia. Essi annunciano una nuovo periodo della storia dell’umanità,  quando cioè l’amore vincerà ogni paura e odio, quando la guerra farà spazio alla pace, quando non ci sarà più l’oppressione dell’ uomo contro un proprio simile. E così lo stesso racconto del diluvio, menzionato tante volte nell’Antico Testamento e anche da Gesù stesso non è  più un messaggio di distruzione da parte di Dio, ma, al contrario, un atto di fede nella presenza costante di un piccolo resto che salverà sempre l’umanità dalla sua autodistruzione.

Ai nostri giorni nei quali la nostra disorientata e smemorata umanità continua questo processo di autodistruzione attraverso le guerre, le oppressioni dei poveri, con uno sfruttamento irrazionale ed esiziale del pianeta, dobbiamo stare attenti ai segnali di una vita nuova, alle arche capienti che persone profetiche e chiaroveggenti (come lo fu Noè) sanno costruire ed aprire a tutti e nelle quali tutte le creature possono vivere nella pace e nella sicurezza. Nessuno escluso. Il messaggio è questo: dobbiamo trasformare le spade dei nostri innumerevoli conflitti, piccoli o grandi che siano, in aratri fecondi e in strumenti appropriati a edificare un mondo dove regni più giustizia e più amore. E’ in questo mondo rinnovato che bisogna discernere il ritorno costante di Cristo e non in una sorta di post-scriptum della storia arrivata al termine. E così si profila un compito per chi vuol essere autentico discepolo del Signore : quello della fiduciosa vigilanza e di una amorosa attesa; e l’utopia di Isaia è come il fondamento di questa nostra speranza, perché è in effetti profezia ed annuncio della venuta del Messia. Egli certo è già venuto, egli è presente tra noi, egli è il maestro della storia. Tuttavia egli rispetta la nostra libertà  e ci lascia sonnecchiare richiamandoci ogni tanto alla necessità che c’è ben altro da fare: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?» (Mt 26, 40); ma la vittoria finale del suo regno di pace, di comunione e d’armonia è già assicurato. Perché la vittoria finale dipende da Lui e da Lui solo. Tuttavia, il momento quando questa vittoria si realizzerà dipende da noi, perché è attraverso di noi che Egli ha scelto di realizzarla. A ciascuno di noi è chiesto di fare la nostra parte, nell’infinita varietà delle occasioni propizie come di quelle dolenti.

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