“Si lavora per vivere o si vive per lavorare?”. Se è vero, come spesso si dice, che si lavora per vivere, allora la vita è un mero strumento per ottenere altro. Se fosse così, non sarebbe un po’ troppo triste la vita, dal momento che dedichiamo a questo mezzo metà della nostra vita, e molte preoccupazioni? Sarebbe un po’ ingombrante come via per ottenere la libertà. “Arbeit macht frei”? Se portata all’eccesso, questa concezione, che in realtà fa breccia in tutti noi, porta ad una degradazione della dignità umana. Infatti, se il lavoro è solo un mezzo, il lavoro migliore è quello che ottiene il suo scopo – la retribuzione – nel modo più comodo e diretto possibile. È come nel mondo dell’arte. Uno fa l’Accademia d’arte, studia e fa esperienza per vent’anni, e così viene assunto dallo Stato per fare la guida in un museo, gratis. Un altro non studia niente, ma a un certo punto ha l’idea di dipingere col sugo di pomodoro, e lo pagano 10.000 euro a tela. Così va il mondo.
No, la dignità del lavoro va di pari passo con la dignità dell’uomo. Ma tutto sta nel modo di concepire il lavoro e lo scopo stesso della vita. Abbiamo già detto che non si può lavorare per vivere, ma, dato che il lavoro occupa una parte quantitativamente grande della nostra vita, quantomeno dovremmo riuscire a vivere intanto che lavoriamo. Ma comunque non basta: dobbiamo vivere in quanto lavoratori. Non si tratta di fare un riduzionismo materialista; al contrario. Bisogna capire il vero significato del lavoro in senso vitale, affrancandoci dall’apparente necessità delle concrete attuali forme del lavoro. Il lavoro è qualcosa dell’uomo, non si identifica con una determinata impostazione del lavoro o dell’economia. Per questo oso dire che se uno arrivasse a capire che cos’è veramente, esistenzialmente, il lavoro, ogni naturale ambizione sarebbe già pienamente soddisfatta. In caso contrario, anche la ricerca del lavoro ci lascerà sempre insoddisfatti, non per colpa del mondo, ma per colpa nostra, che non sappiamo per che cosa combattiamo, o non lo sappiamo fino in fondo. Certo c’è l’istinto di sopravvivenza, ma che cosa nutriamo quando nutriamo noi stessi? Che cosa siamo? Se abbiamo già una risposta, non abbiamo capito nulla.
Che cos’è il lavoro? Ovviamente non è solo un modo per procacciarsi il denaro. Lo sappiamo: è anche fatica, produzione (e quindi soddisfazione), creatività, relazioni. Fin qui chiunque lo potrebbe dire. Ma il modo di vivere il lavoro, di dosare e di interpretare queste sue componenti, questo fa la differenza tra chi, in fondo in fondo, lavora per vivere (anche se dice di trovare nel lavoro molta soddisfazione) e chi invece non ha bisogno di vivere, quando può lavorare. Lo diciamo in senso positivo: chi capisce il ruolo vitale del lavoro, e per questo è libero dagli schemi dei meccanismi consolidati e apparentemente ineludibili, non fa alcuna differenza tra vivere e lavorare. Non perché ne è dipendente o perché non è capace di vedere od apprezzare altro, ma, al contrario, perché ha esteso il suo lavoro fino a comprendere tutte le dimensioni, anche estetiche, della sua vita umana. Per evitare di essere ancora equivoci: questo avviene soltanto quando la vita umana ha uno scopo.
Qual è lo scopo della vita umana? Questa è la domanda. Alla luce di questa risposta, vedete bene, la questione lavorativa diventa una semplice applicazione. Fortunatamente abbiamo un modello di vita lavorativa veramente realizzata, in cui tutte le componenti sopra citate sono non solo in una felice armonia quantitativa, ma sono al loro giusto posto in vista del vero fine della vita. Questo modello è il grande e felice lavoratore: Gesù. Nella sua infanzia vediamo un aspetto che spesso è trascurato: vivere, e quindi anche lavorare, vuol dire anche essere bambini, lasciarsi nutrire da altri, scoprire il mondo, passivamente, lasciarsene appassionare, sgranare gli occhi, ma senza forzature, riposare, giocare, crescere. Fondamentalmente crescere. Poi Gesù si dedicò a fare il carpentiere, e qui c’è tutta la dimensione dell’ascesi, dell’impegno per altri, dell’utilità sociale, della costruttività, dell’invenzione e della maestria, e anche del rapporto col padre putativo, quindi una dimensione anche relazionale del lavoro. Pensiamo inoltre a Gesù adolescente che forse ritorna a casa dopo il lavoro col padre e viene accolto dalla Madonna: c’è tutto uno sviluppo del senso di soddisfazione, del contributo dato alla vita familiare, della complementarità dei caratteri, insomma tutta una dimensione psicologica e relazionale che viene sollecitata e coinvolta nella vita lavorativa.
fra Stefano Prina [/fusion_text][/one_full]]]>