24 dicembre
2Sam 7,1-5.8b,12.14a.16; Sl 88/89; Rm 16,25-27; Lc 1,26-38
Il concepimento del Verbo nel grembo di Maria realizza la profezia che il profeta Natan pronunciò a Davide: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? (…) Io susciterò un tuo discendente dopo di te…”: in questo annuncio si intuisce la nascita del Messia, ma non solo: l’Onnipotente lascia intendere di non essere entusiasta della casa che Davide intende costruirgli.
In verità la casa che Dio si aspettava è il cuore degli uomini, quel cuore che i profeti lamentano essere indurito come pietra. Non è più possibile scioglierlo, è necessario cambiarlo, estirpare il cuore di pietra e trapiantare un cuore di carne, che sappia battere al ritmo del cuore di Dio.
Il natale del Signore sancisce il tramonto dell’atto religioso fine a se stesso, separato cioè dalla vita: a differenza di ciò che accadeva al Tempio, nel quale il sommo sacerdote offriva il sacrificio a vantaggio suo e degli israeliti, a prescindere da ciò che (gli israeliti) facevano o non facevano, addirittura a prescindere dal fatto che fossero presenti al rito, oppure no; il culto istituito dal Signore in spirito e verità è legato alla fede di coloro che partecipano, fede celebrata in chiesa, ma incarnata e vincolante fuori di chiesa, dovunque vivano i cristiani e qualunque cosa facciano.
Per rimarcare la novità dell’incarnazione in fatto di culto, sorgente della nostra salvezza, il Vangelo della crocifissione ci informa che, nell’istante in cui Cristo spirava, il velo del tempio si squarciò a metà, da cima a fondo (cfr. Mt 27,51); il valore teologico di questo particolare è straordinario: il velo che separava il popolo dal cerchio sacro ove il sacerdote offriva il sacrificio, impedendone la vista, è squarciato, a significare che non solo il sacrificio si può vedere, ma contamina con la sua virtus, con la sua forza, la vita di coloro che partecipano.
Lasciamoci anche noi contaminare dal sacrificio di Cristo. Stanotte ne celebreremo l’inizio; il primo di aprile, il compimento …e non è uno scherzo!
23 dicembre
Ml 3,1-4.23-24; Sal 24; Lc 1,57-66
La scena esprime un principio fondamentale della fede: quando Dio manifesta la sua volontà, questa non è mai riconducibile a qualcosa di conosciuto, ma è novità assoluta. La polemica sul nome costituisce una prova evidente.
Al momento della nascita io ricevo un nome; il mio corpo non esiste se non in relazione con mio padre, che mi ha dato il nome. Il rapporto con il mio corpo è per ciò stesso rapporto con mio padre: rapporto dice relazione e come tale, è una storia fatta di gesti, di incontri, di scontri, senza i quali neppure esisterei come persona. Diventare adulto e libero ha qualcosa a che vedere con l’accettazione di questa relazione come costitutiva della mia identità, la dipendenza da mio padre, che, paradossalmente, mi prepara a lasciarlo, liberando il cammino della vita.
Mentre i familiari di Zaccaria tentano di ricondurre la nuova nascita all’interno della tradizione familiare, garantendo la continuità con la storia passata, i genitori del bambino si oppongono, perché sanno che quel figlio costituisce l’elemento di rottura con la tradizione antica e inaugura un tempo nuovo, il tempo del compimento delle promesse.
La storia di Zaccaria ed Elisabetta sarebbe finita con loro, ormai se ne erano fatti una ragione: questo figlio apparteneva già ad un’altra storia: neppure il suo nome avrebbe richiamato le origini parentali. La fede di questi due vecchi genitori è per noi uno degli esempi più luminosi di chi si abbandona totalmente a Dio e rinuncia anche all’unico sogno, all’unico dono che in qualche modo avrebbe mantenuto integro il sottile filo della vita dopo di loro. Non è rassegnazione, e neppure cinismo… Si tratta di accettare i piani di una Volontà superiore, nella convinzione senza riscontri che quella Volontà è la migliore per tutti, anche per loro.
Dio gradì quella fede e la premiò sciogliendo la lingua di Zaccaria. Il vecchio benedisse Dio: anche questo è un insegnamento sul valore liberante della fede: liberi da noi stessi… per Dio.
22 dicembre
1Sam 1,24-28; Cant. 1Sam 2,1.4-8; Lc 1,46-55
Nel Magnificat, Maria dichiara che tutte le generazioni la loderanno e non cesseranno di guardare a lei; da parte sua, ella guarda solo a Colui che ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ad Abramo e alla sua discendenza. Per questo, la donna porta Colui dal quale si lascia portare, o, come canta l’autore della Divina Commedia, (Maria) è “vergine madre, figlia del suo figlio”.
Questo atteggiamento altro non è che l’effetto della fede di lei.
Ogni fede ecclesiale è chiamata a modellarsi sulla sua, che porta in sé un contenuto più grande di quanto umanamente possa capire; perciò si lascia docilmente portare da esso.
Questo lasciar fare della Madre è il medesimo lasciar fare di un figlio: ogni bambino deve cominciare con il farsi portare. E proprio questo augusto Bambino, anche quando sarà cresciuto, non uscirà dal suo stato di infanzia; anche nella maturità si lascerà portare e sospingere dalla volontà del Padre, così come gliela presenta lo Spirito. Adesso si tratta del suo primo esercizio, dell’addestramento fisico: Egli viene portato in giro corporalmente; è l’inizio di un faticoso apprendistato, per diventare ciò che ogni cristiano dovrà diventare e rimanere: docile a chi lo conduce “là dove lui non vuole”, come predice il Risorto a Simon Pietro.
Nella sua obbedienza, neanche Gesù vuole sapere dove lo Spirito Santo lo sospingerà; per esempio, nel deserto della tentazione. Questo lasciarsi portare e sospingere si compirà perfettamente nel sacramento dell’Eucaristia, ove il Figlio si abbandona allo spirito santo e non santo della Chiesa, per essere messo a disposizione di uomini che non sono pronti ad accoglierlo come Colui che è, né a lasciarsi modellare dalla Sua grazia, dal Suo atteggiamento di totale docilità.
Adesso da bambino, più tardi da uomo, infine come ostia, il Figlio si lascerà trattare come cosa di cui si dispone, Lui, che pure ha preso su di sé i peccati del mondo e quindi il mondo stesso.
21 dicembre
Ct 2,8-14; opp. Sof 3,14-17; Sal 32; Lc 1,39-45
Un evento teologico si manifesta all’interno di una storia di uomini: il fatto teologico è l’incarnazione del Verbo eterno di Dio; la storia umana è, molto più prosaicamente, la storia di una gravidanza fuori programma, fuori dal matrimonio, fuori dalla morale corrente,… fuori da tutto.
Nessuno crederebbe che questa maternità sia un dono del Cielo. Non è prudente che Maria, poco più che ragazza, rimanga a Nazareth; meglio cambiare aria per un po’, finché il polverone non si sarà dissolto e le malelingue non saranno state messe a tacere. Provvidenziale lo stato di bisogno dell’anziana parente Elisabetta; la Madre di Dio parte per andare ad aiutarla negli ultimi tre mesi di gestazione.
Maria non giunge sola dalla cugina, ma con qualche cosa in sé, a cui ha pienamente acconsentito in linea di principio, senza conoscerne la portata. Maria è un ostensorio della Parola e della volontà celeste, che si sono incarnate. Ma la madre di Dio non sa ancora come si svilupperà quel centro, attorno al quale ora lei vive.
È consapevole di essere stata espropriata e gettata nelle profondità di tutta la storia della salvezza; al tempo stesso, Maria è posta su un piedistallo: il cuore di questa storia di salvezza vive e cresce nel suo grembo e uscirà da lei. Ma questa consapevolezza non suscita in Maria nessun panico: nel suo consenso, si è abbandonata ad un duplice mistero: scomparire come serva e mostrarsi come portatrice della Parola di Dio.
Al suo saluto, il bambino che cresce nel grembo di Elisabetta sussulta: Gesù, non ancora nato, si è già scelto il precursore. Lo Spirito Santo piomba verticalmente a fecondare le relazioni orizzontali, le motiva, conferisce loro senso compiuto, profondità e risonanza.
Anche il rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento appare indissolubilmente annodato: la pienezza dell’Antico, rappresentato da Giovanni, viene elargita dal Nuovo, incarnato in Gesù: “Colui che viene dopo di me, mi è passato avanti, perché era prima di me.” (Gv 1,15).
20 dicembre
Is 7,10-14; Sal 23; Lc 1,26-38
Nell’AT il cielo si è aperto spesso e ne sono scaturiti la Parola e lo Spirito di Dio; ma lo Spirito Santo non ha mai steso la sua ombra sul grembo di una vergine. Tutto il passato è stato un avvio, una preparazione; adesso è il compimento. Il Figlio del Padre si lascia portare dallo Spirito in un grembo umano, il cielo si apre in modo nuovo e rivela la vita trinitaria di Dio: tutto procede dal Padre, che rimane invisibile sullo sfondo, non si incarna, ma manda il Figlio eterno; il Figlio si lascia inviare; è all’opera lo Spirito Santo che compie la volontà del Padre e porta il Figlio là dove questa volontà può compiersi “come in cielo, così in terra”.
Nell’incarnazione la vita intima di Dio si rivela con perfetta chiarezza nella triplice dichiarazione dell’angelo: “Il Signore (il Padre) è con te”. “Darai alla luce il Figlio dell’Altissimo”. “Lo Spirito Santo stenderà su di te la sua ombra”.
Il Figlio, che vuole rendere comprensibile al mondo la bontà originaria del Padre, non agisce di propria iniziativa, perché un atto del genere metterebbe in luce solo lui, anziché il Padre. Al principio di ogni attività sta l’obbedienza, la disponibilità a essere inviato dal Padre, secondo la volontà di Lui. Già la traiettoria dal seno del Padre eterno al grembo della madre temporale è un cammino nell’obbedienza, il più difficile e gravido di conseguenze, ma che viene percorso fino in fondo nella missione, per conto del Padre: “Ecco io vengo per fare la tua volontà” (Eb 10,7).
Il Verbo deve diventare uomo, l’intero evento della salvezza non è un affare interno della divinità. Incarnarsi significa diventare Figlio di una madre, la quale deve pronunciare il suo pieno consenso umano alla concezione del seme divino. La libera risposta umana si esprime in quella perfetta solitudine di Maria con Dio, nella quale, nascosta al mondo intero, la vergine si offre all’Onnipotente in modo inimitabile. Nasce la comunità Dio-uomo, sotto la forma della comunione Madre-Figlio.
19 dicembre
Gdc 13,2-7.24-25a; Sal 70; Lc 1,5-25
Se Giuseppe, sposo di Maria, non aveva messo in conto il disegno di Dio su di lui, Zaccaria ed Elisabetta, si erano invece rassegnati a fare a meno del disegno celeste; per tutta la vita i due sposi avevano implorato il dono di un figlio, fino a quando, loro malgrado, avevano superato l’età feconda. Ma la fede non era venuta meno! L’offerta dell’incenso che Zaccaria fece quel giorno, in ottemperanza al turno sacerdotale, fu più che un gesto rituale: era l’offerta della sua preghiera, che saliva a Dio e che Dio gradì come il profumo dell’incenso.
Alla vista del messo celeste, il vecchio trasalì terrorizzato; sfido chiunque a non reagire in modo simile, ad un’apparizione angelica. L’annuncio dell’imminente gravidanza della moglie gli procurò infine un tale shock che perse l’uso della parola; è verosimile pensare che abbia avuto un ictus.
Anche il terzo evangelista rinviene una relazione tra la persona del Precursore e il profeta Elia, forse debitore anche Luca della polemica scatenatasi, in epoca cristiana, negli ambienti giudaici, intorno alla profezia secondo la quale Elia sarebbe tornato prima dell’avvento di Cristo.
La storia biblica ricorre più di una volta all’intervento divino per sanare la condizione di sterilità fisica, in funzione di un progetto che Dio ha in mente e che a suo tempo rivelerà agli uomini. Naturalmente i modi di Dio non sono del tutto convenzionali; sarebbe troppo prevedibile: Dio chiede l’aiuto di donne e uomini persi, senza posterità, e dunque senza più storia. E come loro non si aspettano più nulla né da Dio, né dal mondo, nessuno si aspetta più nulla da loro. Dio, invece, sì! Ed ecco che la vicenda del Battista ha un precedente famoso: Sansone, vissuto più di mille anni prima. L’epopea di Sansone, che sconfina nella leggenda, ci rivela quale forza può assumere l’uomo quando si dona a Dio anima e corpo; e, fatalmente, in quale abisso di debolezza può precipitare l’uomo di Dio, quando alla compagnia dell’Onnipotente, preferisce altri amori.
18 dicembre
Ger 23,5-8; Sal 71; Mt 1,18-24
Matteo presenta l’annunciazione vista dagli occhi di un uomo: non è la stessa cosa vivere l’attesa di un figlio da parte della donna, o dell’uomo, specie se l’uomo in questione non è il padre naturale. Quali risonanze psicologiche suscita in un giovane apprendere un fatto del genere, alla vigilia del matrimonio? L’evangelista vi allude appena, rivelando l’intenzione di Giuseppe di licenziare Maria in segreto. Un sogno provvidenziale salvò la situazione; tuttavia l’ombra del disonore seguì sempre la famiglia di Nazareth e diede adito a chiacchiere e mormorazioni sull’onestà di Maria e sulle origini di Gesù: se ne avverte l’eco anche nel Vangelo di Giovanni, in occasione della polemica di Gesù con i dottori della Legge sull’identità del Cristo: “Noi non siamo figli di prostituzione…” (Gv 8,41b).
Colpisce il fatto che il modus operandi dell’Onnipotente produce un vero e proprio shock dal quale è necessario riprendersi, resettando la propria vita, in presenza di una nuova e inattesa variabile, chiamata ‘volontà di Dio’, la quale manda all’aria i piani dell’uomo. In modo forse un po’ originale Dio ci ricorda che la vita non è nostra, ma sua; e, come Signore della nostra vita, può farne ciò che vuole, sfidando anche la morale corrente.
L’evento dell’Incarnazione non fu indolore per Maria, tantomeno per Giuseppe. Del resto, ogni vocazione è sempre una Parola che sposta: la mente e il cuore sono costretti ad allargare la visuale, da un progetto umano-solo-umano a uno umano-divino, ove la componente soprannaturale ha un peso specifico non indifferente; la pretesa di un riscontro immediato è destinata ad andar delusa.
La fede nella promessa di Dio interpella la nostra libertà. E la riuscita della scelta di vita non riguarda solo la persona, ma trascende i confini individuali. Dicendo di sì a Dio, noi diciamo di sì anche al mondo. Per rispondere positivamente, bisogna uscire dai propri schemi collaudati.
Non si cuce una pezza di stoffa nuova su un tessuto vecchio.
17 dicembre
Is 61,1-2.10-11; Lc 1,46-54; 1Tess 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28
Anche Marco alza il sipario del suo Vangelo sulla scena di Giovanni che battezza presso i guadi del Giordano. L’insistenza quasi maniacale con la quale riferisce la dichiarazione del Precursore, “Io non sono il Cristo…”, ha l’intento di smentire le voci, secondo cui l’uomo vestito di peli di cammello, che mangiava locuste e miele selvatico, fosse il Messia.
L’indugio del quarto evangelista sul ministero del Battista e sull’incontro di lui con il Nazareno, rivela che il battesimo costituisce il punto di non ritorno per la nostra fede, ma anche per la fede e la missione del Signore.
La presa di coscienza di Gesù circa la propria identità e la propria missione, testimonia la sintesi perfetta tra la natura umana dell’Uomo di Nazareth e la natura divina. Mai, Gesù dimenticò di essere al tempo stesso uomo e Dio. Tutto ciò che disse come uomo lo diceva come Dio; tutto ciò che visse come uomo, lo visse anche come figlio di Dio. Dal momento in cui lo Spirito Santo si posò su di lui, il Verbo incarnato cominciò a conoscere la fatica del vivere umano, le tentazioni, il dolore morale e fisico, il rifiuto degli uomini, il tradimento, la violenza ingiusta e gratuita, l’abbandono di Dio e degli amici, infine la morte.
Siamo ad una settimana da Natale, e questa riflessione ha tutto il sapore della Domenica delle Palme… Ma se ci pensiamo, i dolori della passione hanno accompagnato, passo dopo passo, il cammino del Signore, fin dall’inizio. “Non c’era posto per loro nell’albergo” ci riferisce san Luca (2,6): questa notazione, passa pressoché inosservata agli orecchi di un ascoltatore poco avveduto e forse un po’ romantico… Gli artisti si sono sbizzarriti a dipingere, o modellare grotte, stalle, mangiatoie e altre simili amenità, così pure i costruttori di presepi… Ma la verità è molto meno romantica: la esprimo con le stesse parole di Giovanni: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.” (1,11). E noi, come lo accoglieremmo, se nascesse ai nostri giorni?
16 dicembre
Sir 48,1-4.9-11; Sal 79; Mt 17,10-13
Dopo la trasfigurazione, il Signore affronta la questione del rapporto tra Elia e il Messia.
Dimostrare la messianicità di Gesù, che i Giudei negavano, rappresentava lo scoglio più difficile della Chiesa primitiva. Secondo la tradizione fondata su una profezia di Malachia (3,23), il ritorno del grande profeta avrebbe dovuto precedere l’avvento del Signore; per i Giudei il fatto non si era verificato. Costretta a difendersi, la Chiesa identificò il ritorno di Elia, con la persona di Giovanni Battista. La riflessione evangelica si sviluppò all’interno di un acceso dibattito, in bilico tra polemica e apologia; la posta in gioco era riconoscere in Gesù colui che realizzava le antiche Scritture. La risposta del Signore all’obiezione degli apostoli, è preceduta e seguita da due annunci della passione, nei quali il Figlio dell’uomo rivela il rifiuto da parte dei Giudei, incapaci di leggere la realtà che si manifesta ai loro occhi in modo forte e chiaro.
Leggendo questa breve pagina di Matteo, come non pensare alla parabola del ricco epulone, contenuta nel Vangelo di Luca? All’implorazione dell’uomo che bruciava all’inferno: “Se qualcuno dai morti andrà dai miei fratelli ad ammonirli, quelli si ravvederanno.”, Abramo risponde: “Neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi.” (cfr. 16,19-31).
È proprio il caso del Battista, che Gesù identifica come il profeta Elia ritornato in vita.
I nemici del Signore, maestri nello studio e nella comprensione delle Scritture, avevano avuto più di un riscontro sulla realizzazione delle profezie da parte di Gesù. Eppure non avevano voluto credere in Lui. Nella loro mente c’era un vero e proprio scollamento tra l’intelligenza delle Scritture e l’interpretazione della storia. Ed è proprio questa la sfida che oggi, come allora, la Rivelazione contenuta nella Bibbia lancia alla nostra fede: riconoscere, oppure no, la realizzazione delle promesse nei fatti della vita di Gesù, ma anche in quelli della nostra vita.
Un piccolo commento, giorno dopo giorno, dai frati del convento di Madonna delle Rose a Torino.