Tra le colline veronesi, ai piedi del Monte Baldo e a pochi chilometri dal lago di Garda, sorge l’antica villa di Santa Maria di Onè. Apparteneva alla famiglia Camis, finché l’ultimo proprietario, d’origine ebraica, si convertì al cattolicesimo, vestì l’abito dei frati predicatori e, alla morte, la lasciò alla nostra provincia religiosa. Da alcuni decenni la casa è affidata alla parrocchia domenicana di Cristo Re in Bolzano, che qui vi organizza campi estivi per bambini e ragazzi.
Quest’anno, su invito del mio superiore provinciale, io ed un mio confratello abbiamo partecipato al campo estivo delle scuole medie, organizzato da fra Giuseppe, che da diversi anni segue i giovani della parrocchia. Così il 29 giugno, fra Danish ed io, messi da parte i libri e gli esami di filosofia e teologia, ci siamo messi in viaggio per raggiungere Onè.
Poiché si trattava della mia prima esperienza come animatore, prima di partire non sapevo cosa mi sarebbe stato chiesto di fare, ma va da sé che se avevano domandato che dei frati andassero nelle terre scaligere per animare i giovani di una parrocchia sudtirolese, ci si aspettava perlomeno che ci comportassimo da frati.
Infatti, sebbene il campo estivo parrocchiale possa essere considerato come un modo per affidare a qualcuno i figli, dopo la chiusura delle scuole, o un modo per trascorrere le vacanze o, per i più religiosi e devoti, una via per la quale i pargoli apprendano la buona educazione, il suo scopo è in realtà quello di far crescere nella fede i ragazzi. Per questo, le preghiere del mattino e della sera, il tempo dedicato all’adorazione eucaristica e alla confessione non sono un’appendice dei giochi. Semmai è il contrario: i giochi, le risate, le pulizie e gli ordini impartiti da fra Beppe a suon di fischietto trovano pienamente il loro senso quando sono riferiti alla fede.
Durante quei dieci giorni, oltre a fare quello che fanno gli altri animatori, riservarmi il tempo per recitare l’Ufficio e rispondere alle domande dei ragazzi: «Perché hai scelto di diventare frate?» «Cosa fate in convento?» «Che differenza c’è tra il frate e il prete?», mi sono domandato se la recita del rosario e lo studio di san Tommaso servano per fare l’animatore o per spiegare le regole di giochi come “tabù” o “palla avvelenata”. In effetti nel gioco, come ebbe a dire Benedetto XVI, si rivela il desiderio che l’uomo ha del Paradiso, ma anche l’esigenza di regole e di collaborazione per un fine comune, al cui raggiungimento segue la felicità. Esplicitare questo desiderio sembra il compito del domenicano: ciò non significa che io debba spiegare a dei quattordicenni cos’è la virtù dell’eutrapelia secondo la dottrina del Dottore Angelico, ma significa mostrare con estrema semplicità che il gioco e la liturgia, le regole e la collaborazione non sono concetti opposti tra loro e che, nella vita che san Domenico ci ha proposto, si armonizzano.
Infine, dopo dieci giorni trascorsi ad ascoltare i ragazzi, a metterli in fila, a parlare con loro, posso dire che, se è valido il lapalissiano “non ci sono più i giovani di una volta”, è anche vero che i giovani, con le loro domande talvolta provocatorie e la loro ricerca di coerenza e di esempio negli adulti, rivelano che, fra tutti i cambiamenti sociali, il cuore dell’uomo – creato da Dio per la santità – è sempre lo stesso: «un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso» (Sal 63,7).
Fra Paolo Peruzzi