24 dicembre 2020
Nella luce, per la luce
LETTURE: Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
È la luce che caratterizza la notte santissima di Natale e i giorni che la seguono: nelle letture che vi vengono proclamate, in particolare quelle di questa celebrazione, brilla la luce della rivelazione. Il solenne inizio dal nono capitolo del profeta Isaia è tanto struggente quanto carico di gioiosa speranza: «Il popolo che camminava nelle tenebre, ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse». Così anche la scena ormai tanto familiare che il Vangelo secondo Luca propone, ci appare piena di luce. A ciascun uomo, in questa notte, è offerta la straordinaria esperienza dei pastori all’annuncio dell’angelo: «la gloria del Signore li avvolse di luce». Lo stesso testo dalla lettera a Tito assume il solenne e luminoso passo dell’annuncio di rivelazione, che fa chiarezza: «È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini».
Non poteva che essere questa, allora, la data della festa di Natale: poco oltre il solstizio, quando il sole ricomincia a crescere; dapprima in maniera impercettibile, solo per chi ha occhi attenti, e poi via via in modo sempre più manifesto. Sono i giorni in cui il sole vince – dies natalis solis invicti: non a caso su questa festa pagana si è innestato la solennità della nascita di Cristo. La stessa pietà popolare, ma anche più in generale tutto l’immaginario legato a questa festa, ha assunto la luce e le luci come elemento caratteristico. Sarebbe un errore liquidare tutto questo come semplice “sovrastruttura” commerciale e consumista, senza rendersi conto che in realtà, alla radice, vi è una sorta di intuizione profonda – al limite, tradita dall’incapacità a condurla fino alla sua origine più pura. È bello, è giusto commuoversi davanti alle piccole luci brillanti che decorano le nostre strade e le nostre case: perché esse riflettono – poco e a volte male, ma certamente riflettono – una bellezza più grande e più piena: quella attesa dal popolo che camminava nelle tenebre, e ha visto una grande luce. L’attesa che significano è un’attesa vera, un desiderio profondo: che lo sappiamo o no, se ne rendano conto oppure no, gli uomini che vivono in questa età che pare averne smarrito il significato.
Che cos’è che aspettiamo, quando aspettiamo il Natale? E in fondo, che cos’è che ci delude – come da bambini – quando il Natale è passato, nonostante tutta l’attesa, nonostante tutto il desiderio che arrivasse? Quel desiderio non mente, ma non può essere ingannato. Non basteranno i regali costosi per acquietarlo, perché la nostalgia che sentiamo di fronte alla festa di Natale, la discreta ma profonda sensazione di vivere una notte totalmente diversa da tutte le altre che sperimentiamo in modo invincibile – fosse anche nel drammatico confronto imposto dalla sofferenza –, testimoniano che la nostra umanità sente vicino il suo mistero. Il continuo desiderio di qualcosa che sempre sfugge, che ciascuno di noi porta in sé, il «vuoto a forma di Dio» (per usare un’espressione che si trova spesso attribuita a Pascal) svela in quest’ora che non è solo un vuoto, una maledizione e mostra la sua natura di promessa.
Il grande mistero si svela, ma nel modo più inconcepibile. In una vertiginosa e perfetta definizione, l’antico scrittore di inni Romano il Melode così lo descrive: «Un bimbo piccino è il Dio eterno» (Kontakion di Natale). In modo non dissimile, e sullo sfondo del racconto che abbiamo sentito dall’evangelista Luca, un altro padre della Chiesa, Basilio di Seleucia, immagina Maria che osserva il figlio appena nato: «Quando ella contemplò quel divino infante, io immagino che vinta dall’amore e dal timore, parlasse così tra sé: Che nome posso trovare che si convenga a te, figlio mio? Uomo? Ma la tua concezione è divina. Dio? Ma tu hai assunto l’umana incarnazione. Che farò dunque di te? Ti nutrirò di latte o ti celebrerò come un Dio? Avrò cura di te come una madre, o ti servirò come una serva? Ti abbraccerò come un figlio o ti supplicherò come un Dio? Ti offrirò del latte o ti porterò degli aromi?» (Omelia sulla Madre di Dio, 5). Questo è il mistero stesso al centro della nostra fede, così come è affermato dalla lettera di Tito proclamata in questa notte: quel bimbo è «il nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo».
Proclamiamo in questa notte che Dio ha ascoltato lo struggente grido del profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19b). Quante volte gli uomini hanno gridato verso il cielo, chiedendo: «perché?», di fronte ai loro drammi, di fronte al dramma radicale della ricerca di un significato per quanto ci accade. In fondo, gran parte delle tracce che l’uomo sulla terra ha lasciato, nell’esperienza di tante grandi civiltà, pare una testimonianza di questo grido, scritto nella pietra e nei colori.
Dio ha ascoltato il grido della sua creatura: si è infine mostrato, e questo è l’annuncio fondamentale della solennità di Natale; e tuttavia è giunto anche come un grande dono – proprio come a Natale si fa per i bambini. È il dono di sé, della sua stessa persona, della sua natura, perché gli uomini compiano il destino a cui li ha chiamati, e di cui sentono il richiamo, tessuto nelle loro viscere, impresso sul loro cuore. Per riprendere ancora la riflessione così bella e ricca dei Padri della Chiesa: «Dio assume la povertà della mia carne, affinché io riceva la ricchezza della Sua divinità» (Gregorio di Nazianzo); «Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenga Dio» (Atanasio di Alessandria).
Dio è venuto nella notte di Betlemme, nella mangiatoia, mentre gli angeli cantavano nella gloria; si è fatto piccino, colui che i cieli non possono contenere. Ci prende per mano, ora, per farci fare al contrario il cammino che lui ha compiuto – da piccoli, diventare grandi; dalla povertà, entrare nella gloria.
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