I monaci, che grande dono dello Spirito Santo seminato nei solchi della storia della Chiesa! Sant’Antonio abate, san Benedetto, come non ringraziarvi di tutto il bene che avete fatto al mondo? San Domenico sapeva bene la preziosità del vostro insegnamento, che ha fatto convergere, insieme alla saggezza della vita canonicale, nelle nostre Costituzioni, che poi il tempo ha modellato. Ma una cosa è rimasta, perché nemmeno san Domenico avrebbe avuto l’autorità di cambiarla: “Chi non lavora, neppure mangi” (2Ts 3,10).
Nella nostra giornata di frati domenicani c’è la preghiera, liturgica e personale, c’è la lettura, lo studio, l’approfondimento, la ricerca. C’è la vita delle relazioni, l’attività pastorale, la capacità di vivere il continuo lavorìo della carità. C’è anche la sofferenza, magari anche la fatica, la tristezza, l’incertezza, e c’è anche lo svago, il riposo. Tutto affinché siamo abitati dalla potenza di Dio.
Ma un altro elemento non può mancare: dobbiamo lavorare all’orto. Non si tratta, per noi domenicani, molto spesso, di un orto materiale, perché il nostro cibo è attinto, come per la maggior parte dei nostri contemporanei, al mondo con l’amo del soldino. Del resto, san Domenico ci ha pensati perché passassimo il nostro tempo a cercare di risolvere i problemi di pensiero dei nostri contemporanei, a togliere gli ostacoli al loro abbraccio con Dio. Tuttavia ogni giorno dobbiamo dare almeno una zappata a quell’orto che dà realmente da mangiare a noi e ai nostri confratelli.
Perché la nostra vita possa andare avanti, perché la nostra comunità si possa radunare attorno a un tavolo, abbiamo veramente bisogno di tante pietanze che solo l’amore e l’intelligenza possono preparare. Si tratta di togliere erbacce, cogliere frutti, curare una costante irrigazione, seminare a tempo opportuno e a tempo opportuno mettere paletti e legarvi le piante. Di altre verdure, poi, dobbiamo procurarci piantine già un po’ sviluppate, e fare in modo che attecchiscano tra quelle già presenti. Qualcosa è annuale, qualcosa si rinnova ogni due, tre, cinque anni.
In molti modi possiamo portare nel cuore la naturale fame dei nostri confratelli. Facendo tesoro dei loro gusti. Recuperando i semi che hanno lasciato per ripiantarli in favore nostro e loro, ossia quei gesti di carità e quelle intuizioni interessanti che possiamo imparare ad usare per migliorare il nostro rapporto con l’altro e con la verità. Possiamo studiare ampie pagine dei Padri della Chiesa e dei Dottori, come talee da riversare nel nostro campicello personale, per imparare anche noi ad essere alberi ospitali e visibili nel cuore del mondo. Possiamo meditare i nostri errori e nutrirci di un sano ottimismo, aprendo la porta alla visita dello Spirito consolatore.
Possiamo piantare i nostri talenti, non nella terra, ma negli squarci delle nostre giornate, dedicandoci a fare ciò che ci viene bene e può fare del bene. Possiamo avvicinarci a Dio con affetto, chiedendo che ci stringa sempre più al cuore della Chiesa, perché possiamo vedere nell’unanimità dei fratelli una via necessaria per rimanere fedeli alla rivelazione divina. Possiamo accogliere la Parola che vivifica e feconda la comunità anche quando è accolta nel pozzo del cuore. Possiamo togliere le erbacce delle imperfezioni del nostro modo di parlare e pensare al grande mistero divino, perché, non solo nella predicazione e nell’insegnamento, ma anche nella conversazione fraterna, emerga una sempre più limpida luce di amore e di verità. Perché tutti ci sentiamo, tramite il ministero dell’uno per l’altro, nutriti da Dio.
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