Lo stemma dei frati predicatori

Fin dall’antichità, nel mondo pagano l’adozione di stemmi o di blasoni rispondeva alla necessità di individuare determinati schieramenti nell’ambito militare. A livello civile contrassegnava l’appartenenza ad un casato o ad una corporazione artigianale. In forma privata ciascuno poteva fregiarsene come controfirma negli atti pubblici o ufficiali (contratti, testa menti ecc.).

Analogamente, nella chiesa l’uso di stemmi o emblemi risale agli ordini militari. In funzione di sigilli ne fecero uso ab immemorabili sia dignitari ecclesiastici che uffici curiali (cancellerie), apponendoli come garanzia di autenticità.

Lo stile “nuovo” degli ordini mendicanti e, in specie, dei Frati Predicatori, escludeva ogni frivolezza o vanità. Nei limiti del possibile l’Ordine si difese da tentazioni vanesie. Si accettò, a livello personale, un contrassegno o sigillo per l’autenticazione di documenti (Maestro dell’Ordine) o come testimoniale per la predicazione (predicatori generali). Il capitolo generale di Bologna del 1240 è perentorio: Nullus sigillum habeat curiosum.

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IERI

Col trascorrere del tempo le comunità di Predicatori si fregiarono, per lo più adottando li e adattandoli da altre istituzioni, di stemmi o emblemi tra loro diversi. Qui mi limito a uno sguardo d’insieme; chi volesse informazioni più circostanziate può utilizzare la biblio grafia apposta in calce e alla quale mi riferisco.

1. Gli stemmi

A grandi linee si distinguono due tipi fondamentali: quello cappato e quello gigliato. Da queste due forme primitive ne risultarono altre miste o composite nelle quali confluiro no, in proporzioni diverse, vari ingredienti, dando origine ad un vero e proprio ventaglio di modelli che cercherò di evidenziare visivamente.

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Cappato o “a scudo”

Gli storici propendono nel riconoscergli una priorità cronologica.

A parte i bordi, che talora alterano la sagoma classica dello scudo, esso si presenta sotto quattro forme: la prima con campitura semplice; la seconda porta nella zona bianca le iniziali o.p.; la terza ospita il giglio e la palma; nella quarta campeggia il Crocefisso che (talora) sovrasta il cane con la fiaccola e il libro.

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Questo stemma è assente da tutti i più antichi monumenti funebri (ad esempio da quello di Munio de Zamora in S. Sabina – t 1291) ed è sconosciuto alla prima tradizione icono grafica (Cappella degli Spagnoli a Firenze) ed allo stesso beato Angelico (t 1455).

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Gigliato o “a croce”

Anche questo in più versioni: a) con i quattro bracci eguali; b) con il braccio inferiore innestato su di un’ asta, a mo’ di pastorale; c) racchiuso in uno scudo; d) infine, come “distintivo” da portare sul vestito.

Le estremità dei bracci, inizialmente trilobate, verranno assumendo la forma di un fiore stilizzato, simile al giglio del Delfinato e della stessa Firenze.

Circa l’origine e l’antichità, gli storici non sono unanimi: senza dubbio esistono riferimenti all’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e l’adozione da parte dei Frati Predicatori è probabilmente da connettersi all’attività inquisitoriale, come attesta spesso l’iconografia. La testimonianza più eclatante è quella del blasone che campeggia sulla facciata della basilica romana della Minerva,5 singolarmente commentata da cinque parole: Ordinis Praedi catorum insignia haec sunt e cioè: «Proprio questo (e non altro!) è il blasone dell’ordine dei Predicatori». La venatura polemica non lascia dubbi: siamo in un momento concorrenziale dell’araldica domenicana!

“Composito”

Fantasia, devozione, gusto, bizzarria – soprattutto a partire dal XVII secolo – si coalizzarono per dare vita a quel cocktail araldico di cui sono espressione le innumerevoli “composizioni” che infestano frontespizi, stemmi cardinalizi ed episcopali, blasoni di fratemite, fogli e buste provinciali e conventuali.

Miscelati con criteri soggettivi, non è possibile offrire un elenco esaustivo di tutti gli ingredienti che, in proporzioni diverse, concorrono in questi mélanges, sovente impreziositi da riferimenti al luogo di giurisdizione o al proprio nome (penso all’orsacchiotto di Bene detto XIII, degli Orsini, †1730, e al bue del card. Boggiani,†1942), per lo più elaborate in tempi moderni, per I prelati, da un apposito ufficio vaticano.

A semplice scopo informativo, ecco l’elenco dei più ricorrenti: Crocefisso, cane con fiaccola (talora con mappamondo e libro sotto la zampa), stella, corona regale, palma, giglio, corona del Rosario e persino toson d’oro.

L’avventura araldica non si limitò allo stemma o, comunque, alle immagini più o meno simboliche: si doveva rafforzarne l’efficacia espressiva con diciture emblematiche inscritte nello stemma, o libere, o racchiuse in svolazzanti cartigli.

Nella chiesa l’usanza aveva origini remote e si inseriva nella tradizione basilicale: fin dall’alto Medioevo (e più ancora nel Rinascimento) divenne andazzo pressoché universale (persino tra gli scalpellini e i lapicidi) trasmettere ai posteri la propria identità mediante sigle o acronimi o espedienti (ad esempio strumenti di lavoro) che ne assicurassero ai posteri la memoria.

A prescindere da diciture personali, l’Ordine in quanto tale conobbe sostanzialmente due motti.

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Il primo, “Laudare, Benedicere, Praedicare”, è una triade suggestiva tratta dal Sacramentario di Verona (VI secolo), che figurava – ed è rimasta – nel messale romano: prefazio della Vergine Maria .

Umberto di Romans (t 1277), quinto Maestro generale, en passant vi si riferisce nelle sue Istruzioni,7 senza però scorgervi nella ridondante reiterazione retorica quella dimensione programmatica che gli “spirituali” successivi vi avrebbero trovato. Il compianto padre H. Vicarie mi assicurava che tale triade entrò soltanto nel XV secolo nel blasone dell’Ordine.

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Non meno celebre è il secondo: “Veritas”. Cosa di più glorioso?! Estraneo alla tradizione araldica domenicana, questo motto nacque nel clima della restaurazione lacordairiana. Esso risale alla riforma del padre V. Jandel (Maestro generale dal 1855 al 1872) e da allora comparve sul frontespizio di tutti i libri liturgici editi dal padre beato G. Cormier (1904- 1916). Non senza tradire intenti apologistici, i già citati autori contemporanei vi riscontrarono allusioni nelle lettere di Innocenzo III e di Onorio III e in alcuni passi della Somma di san Tommaso. Fu certo in auge nella letteratura inquisitoriale, al punto che l’Orda Praedicatorum divenne tout court l’Orda veritatis.

La ricerca e la predicazione della verità costituiscono senza dubbio lo specifico della vocazione domenicana; ma dal punto di vista storico e assiologico (cioè della genesi e della storia araldica) ciò non ha alcun riscontro nei primi secoli dell’Ordine.

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Potrebbe infine ricordarsi la celeberrima definizione che san Tommaso offre degli istituti di vita mista: “Contemplata aliis tradere” (Somma Teologica II-11,188,6), incorporata ancora di recente nel “logo” di alcuni nostri centri culturali. Per quanto largamente utilizzata nella letteratura spirituale (con applicazioni non sempre pertinenti) questo lemma non entrò mai ufficialmente nel blasone dell’Ordine.

OGGI

Maiora premunt! E però: per quanto in “tutt’altre faccende affaccendati”, i capitoli generali dedicarono nel secolo scorso qualche attenzione anche a questo problema marginale.

In breve. Nel 1961 (Bologna, presieduto dal padre M. Browne) si afferma che la forma “cappata”, cioè quella simplex, è la più antica: tutti i frati e le monache dell’Ordine devono adottarla. Nel capitolo dell’anno seguente (1962), in seguito a qualche rimostranza, si prega il Maestro dell’Ordine (A. Fernandez) di istituire una commissione che accuratissime approfondisca il problema e di riferirne poi le conclusioni.

Infine, dal capitolo generale di Bogotà nel 1965 (sempre sotto il generalato di A. Feman dez) giunge una dichiarazione salomonica: «Dichiariamo che vada lasciata alle singole province la libertà di scegliere, come stemma dell’Ordine, sia quello cappato che quello gigliato, dal momento che gli argomenti addotti comprovano l’antichità di entrambe le forme».

IN PRINCIPIO

E Domenico quale “divisa” si era dato?

Egli che disdegnava ogni frivolezza (superfluitates), che aveva ponderatamente optato per “l’abiezione della povertà volontaria”, che esigeva per i suoi frati abitazioni modeste (humiles), che indossava una tonaca spregevole (vilis, despecta), si era attribuito un titolo che calzava perfettamente col suo “santo proposito” e ne avrebbe contrassegnato la sua evangelica nobiltà: praedicationis humilis minister.

Ogni commento è superfluo.

Valerio Ferrua O.P.

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Lo stemma dei frati predicatori

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