Una nuova lieta notizia.
Era attesa ed è stata finalmente presentata. Non era una operazione facile da affrontare. Come riassumere in un documento le proposte espresse da tutto il popolo di Dio con parresia e con spirito di misericordia in due anni di riflessioni e in due sinodi? E soprattutto, quali indicazioni pastorali concrete sull’amore offrire al popolo di Dio e a tutti gli uomini di buona volontà? Ne è uscito un documento di 264 pagine, 9 capitoli, 325 numeri e 391 note. Un volume! Può scoraggiare. Per questo lo stesso papa Francesco raccomanda di non leggerlo di seguito (n.5), e consiglia che ognuno inizi scegliendo quella parte che più lo interessa, e poco alla volta estenda la lettura alla altre parti. E si preoccupa di presentare il filo che lega i nove capitoli, per facilitarne la scelta e la lettura (n.6).
Amoris laetitia.
Il titolo è invitante. Esprime lo spirito che anima tutta l’esortazione. Esiste un luogo dove si può trovare la gioia: è la famiglia. Nella famiglia – dice il documento – possiamo trovare quella gioia profonda che nasce dall’amore, nonostante le difficoltà che si incontrano. Fonda la sua convinzione sulla parola di Dio (cap. I). Ma è una affermazione che sembra smentita dai fatti che invece dicono che la famiglia è un luogo in cui abbondano crisi, problemi, sofferenze, delusioni, difficoltà di ogni genere, quando addirittura non scatenano odio e violenza. Le ritroviamo tutte nel capitolo II.
Quale accoglienza ha avuto?
Anche per questo documento della Chiesa riscontriamo tre tipi di accoglienza: da quella entusiastica che parla di un nuovo statuto della famiglia, a quella moderata che nota la continuità di uno “zoccolo duro” dottrinale con qualche apertura, a quella negazionista che reagisce con un “niente di nuovo” o sostenendo che è un documento che esprime il pensiero personale del teologo che è papa Francesco e che non impegna l’adesione del popolo di Dio. D’altra parte – dicono – era prevedibile. Cosa si poteva aspettare dalla Chiesa? Che benedicesse le nozze gay e le famiglie arcobaleno? Che liberalizzasse la contraccezione, la sessualità extramatrimoniale, le convivenze, i divorzi, gli aborti, la poligamia e ogni altro comportamento che fino a ieri aveva condannato? Accontentiamoci del fatto che abbia detto che la sessualità è un dono di Dio e che deve essere rivalutata per la sua funzione unitiva e non solo procreativa; che in ogni situazioni cosiddetta “irregolare” si deve apprezzare il positivo che contiene e farne un punto di partenza per una crescita; che in certi particolari casi dopo accurato discernimento i divorziati risposati possono essere riammessi alla eucaristia, e soprattutto che il costante ricordo della misericordia inviti ad avere un atteggiamento di accoglienza verso tutti, specialmente i deboli e i feriti della vita (anziani, bambini abbandonati, sfruttati, famiglie con familiari colpiti da handicap, vedovi, donne violentate e maltrattate, coniugi abbandonati dal coniuge, soli, famiglie senza casa, senza lavoro, in miseria, immigrati…). La novità (che non è poi tanto novità!) è tutta qui. Per il resto, tutto è come prima.
La novità.
E’ un modo superficiale di leggere il documento, perché in esso troviamo delle novità, ma in particolare una novità che modifica profondamente il nostro modo di vedere, valutare, e soprattutto di vivere l’esperienza del matrimonio e della famiglia. Ed è su questa che ci fermiamo a riflettere Qual è questa novità? Può essere espressa con un termine usato dal card. Baldisseri, segretario del Sinodo, in una lettera inviata ai vescovi poco prima dell’uscita della esortazione: “ricontestualizzare”, un termine e una operazione suggerita da Urs Von Balthassar, già nel lontano 1974 nel suo volume “Il complesso antiromano”, ma che il tomista ha nel cuore da San Tommaso con la tesi della caritas forma omnium virtutum. Cosa significa? Diciamolo prima con una immagine. Pensiamo a cosa avviene in un mazzo di fiori quando nell’inverno vengono tolti dal tepore della casa ed esposti al freddo, o vengono tolti dal freddo a portati nel tepore della casa. I fiori sono sempre gli stessi, ma la diversità del contesto può ucciderli o farli vivere. Questo avviene in modo analogo anche per i principi, le affermazioni dottrinali, le proposte pastorali. Altro è mettere tutta la dottrina-prassi del matrimonio/famiglia nel contesto di un Gesù pensato come colui che è venuto a dettare nuove leggi (il nuovo Mosé), e punisce chi non le osserva, altro è metterle nel contesto di un Gesù che – rivelando il vero volto di Dio che è misericordia – ha posto tutto sotto il “nuovo comandamento” dell’amore.
Gesù lo ha detto più e più volte. Non è venuto a portare leggi e condannare, ma a portare l’amore che salva, e si affianca a chi sbaglia con pazienza per riportarlo nella verità della vita. Lo ha detto a Nicodemo, ai farisei che avevano messo tutto sotto la legge, ma soprattutto lo ha detto all’adultera, all’usuraio, alla peccatrice, al buon ladrone, a chi lo crocifiggeva, e soprattutto a Pietro al quale prima di affidargli il compito di guidare e sostenere le sue pecorelle ha chiesto per ben tre volte se lo amava, cioè se gli garantiva di continuare l’opera della salvezza nella modalità che Lui aveva iniziato e continuato, all’insegna dell’amore.
Al termine della sua vita terrena non ha lasciato un decalogo scolpito su pietra; ma ha dato il comandamento nuovo inciso nel cuore: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi e ho dato la vita per la vostra salvezza. E’ questo il contesto nuovo in cui bisogna mettere tutta la dottrina e la prassi della Chiesa, anche quella che riguarda il matrimonio e la famiglia. Non è una operazione facile, perché ancora oggi continua a prevalere l’idea della Chiesa/società guidata da leggi emanate dall’autorità, nonostante il Vaticano II abbia chiesto di sostituirla con la concezione della Chiesa/comunità, guidata dallo Spirito che è amore, e che diffonde amore nel cuore di tutti i fedeli, con il Pastore supremo che guida e sostiene con amore. E’ ancora vivo il pericolo di mettere anche l’amore sotto la legge, anziché servirsi della legge per vivere meglio l’amore. L’esempio chiaro fino a poco tempo fa era la prassi che i vescovi erano scelti prevalentemente da esperti in diritto canonico, e la morale desumeva le sue linee dal diritto, anziché essere la morale a guidare lo stesso diritto e le sue leggi. Il teologo moralista sa molto bene che altra è la morale in cui la caritas è la “forma omnium virtutum” e altra è invece la vita in cui la giustizia pretende di essere la “forma omium virtutum”, anche della carità.
Una applicazione concreta della ricontestualizzazione.
Ricontestualizzare significa mettere in questo contesto nuovo – e quindi ripensare – le diverse affermazioni dottrinali già definite sul matrimonio/famiglia. Come? Portiamo un esempio. Resta l’indissolubilità, ma non come legge da osservare, ma come rivelazione della vera natura dell’amore che per sviluppare tutto il suo potenziale di vita e di gioia deve essere “per sempre”. E chi non lo vive in questo modo non trasgredisce una legge, ma fa del male a se stesso e a tutti quelli che vivono nel raggio della sua persona; per cui non è da punire con sanzioni, ma da aiutare a capire cosa perde e come può in qualche modo riparare il male che ha fatto a se stesso e agli altri. Come? Anzitutto prevenendo i comportamenti che portano alla rottura (di qui tutto il capitolo sulla preparazione al matrimonio in cui si cita il documento dell’episcopato italiano), aiutando a capire cos’è concretamente amore ed educandosi ad amare, sia nella sua dimensione unitiva che feconda (cf. capitolo quarto e quinto sull’amore unitivo e fecondo); e poi affiancandosi a chi è caduto, e accompagnandolo nella sua fatica di rialzarsi, non applicando nello stesso modo a tutti gli stessi principi, ma adattandoli con discernimento alla diversità dei casi diversi.
Non possiamo dimenticare che l’amore si porta sulla persona e differenzia i suoi interventi secondo la diversità delle persone: come una madre che amando i suoi figli applica ad ognuno quello che vede che è proporzionato e adatto per la crescita diversa di ciascuno. Perché come è ingiusto dare l’uguale ai diversi, così non è costruttivo applicare gli stessi rimedi a chi si trova in situazione di vita diversa. Di qui tutto il capitolo ottavo sulle situazioni di “irregolarità” in cui si insiste sul discernimento, parola che era stata lanciata con forza da Papa Giovanni XXIII al tempo del Concilio Vaticano II e che veniva richiesto non solo alla gerarchia, ma a tutti i fedeli, rivalutando il loro diritto/dovere di impegnare la propria coscienza nella valutazione del bene proprio e della comunità: una novità che è stata ribadita nel documento “Il sensus fidei nella vita della Chiesa” della Commissione Teologica Internazionale del giugno 2014, e che poteva portare una grande ventata di vita, ma che invece è stato riassorbita dalle acque uniformi e uniformanti della legge.
E dopo aver posto tutto sotto il segno e l’influsso della carità, resta l’altro grande problema della ricerca del comportamento concreto che meglio di ogni altro, in quella situazione incarna il valore espresso dal principio. E’ il problema della applicazione dei principi alle situazioni concrete della vita, che è la seconda operazione del discernimento.
Si cade nel soggettivismo?
Ma questo continuo richiamo alla misericordia e al discernimento affidato anche alla coscienza dei singoli fedeli non apre la porta al relativismo, al soggettivismo, al disimpegno, perché ognuno può pensare di poter fare quello che meglio ritiene in nome della propria coscienza, sapendo che se sbaglia alla fine c’è la misericordia di Dio che perdona tutto? Certamente no. Gesù lo insegna in modo chiaro e semplice con la parabola del fariseo e del pubblicano. La misericordia non è ingenuità o buonismo e non è strumentale al proprio benessere. Non è fare di Dio uno strumento per affermare se stessi e i propri sogni di gloria, come fa il fariseo. Ma è la risposta di Dio alla persona che si sente fragile, insufficiente, peccatrice e che si rivolge a Lui per essere sostenuta nella sua fragilità e per uscire dal suo peccato con la sua grazia. Per ritornare all’esempio del divorziato. Il fedele non può pensare che il suo divorzio e il nuovo matrimonio vengano amnistiati dalla misericordia di Dio attraverso la misericordia della Chiesa; ma deve “discernere” con e nella comunità, cioè riflettere sul perché è avvenuto, come è avvenuto, quale responsabilità ha avuto nella rottura, qual è la situazione attuale con l’ex coniuge e i figli, quali sono le sue risorse personali per risolvere la sua solitudine (il “non è bene che l’uomo sia solo” continua ad essere un desiderio naturale, e quindi insopprimibile), e addirittura se il matrimonio finito non è mai incominciato…..E alla luce di queste riflessioni aiutate e sostenute da chi nella Chiesa è in grado di aiutarlo (per evitare il pericolo del Cicero pro domo sua, cioè del piegare il suo ragionare ai suoi interessi), può prendere con l’aiuto della grazia e della Chiesa le decisioni sul cammino da intraprendere per tornare a vivere l’amore “per sempre” anche in questa nuova situazione.
Oltre l’Esortazione.
Il richiamo al discernimento non è una scorciatoia o addirittura una scappatoia per assolversi ed evitare l’incontro con la realtà. Ma è una delle applicazioni alla vita dei fedeli del concetto di Chiesa come comunione, nonché della responsabilità dei fedeli nella costruzione di sé e della comunità, della necessaria inculturazione e addirittura è una riscoperta dell’autentico concetto di “applicazione” dei principi alla realtà concreta delle persone. I principi non sono mannaie (o pietre, come un certo uso delle leggi, n.305) che calano inesorabilmente sulle persone per riportarle tutte nelle stesse misure (come la spada di Damocle o il letto di Procuste), ma sono espressioni di valori che la persona deve far vivere nel modo migliore nelle situazioni concrete della sua vita. Il cammino per passare dal principio al comportamento concreto è talora lungo e complesso, tanto da richiedere l’opera di una virtù speciale, la prudenza, che annovera tra le sue parti integranti anche il consiglio e tra le parti potenziali l’eubolìa, la synesis e la gnome, ma soprattutto è una prudenza animata – come ogni altra virtù – non dalla justitia, ma dalla caritas. Per questo i principi sottesi che ritroviamo nell’esortazione apostolica Amoris laetitia, sono delle premesse che vanno al di là dei temi trattati nell’esortazione stessa, e attendono di essere comprese e vissute nel cammino di una Chiesa aperta al futuro con realismo d’amore.
fra Giordano Muraro