20 dicembre 2020
La profezia e il compimento
LETTURE: 2Sam 7,1-5.8b-12.14a.16; Sal 88; Rm 16,25-27; Lc 1,26-38
Il disegno di salvezza attuato da Dio a favore dell’uomo, appena abbozzato nella seconda lettura tratta dalla Lettera ai Romani di san Paolo, viene descritto dalla prima lettura tratta dal Secondo libro di Samuele e dalla pagina del Vangelo secondo Luca. Nella forma del tipico dittico antico e neo-testamentario (figura e compimento), la liturgia della Parola ci offre le fasi iniziali del compimento della redenzione che si realizza in Cristo. Nell’imminenza della celebrazione del Natale del Signore, le letture ci invitano a contemplare la realizzazione del disegno eterno fin dal concepimento del Messia promesso e atteso nel seno della Beata Vergine Maria.
La dossologia che chiude la Lettera ai Romani ci offre, tra l’altro, il punto di vista prospettico per inquadrare, nell’attesa della celebrazione del Natale del Signore, l’intero disegno della salvezza che condensa nell’evento di Gesù Cristo il mistero “avvolto nel silenzio per secoli eterni”, ora “manifestato mediante le scritture dei Profeti”. Tale mistero coincide con la volontà di Dio concretizzatasi in Cristo Gesù. La “buona notizia”, occorre ricordarlo, consiste nella rivelazione dell’intenzione divina per cui tutte le genti sono chiamate ad unirsi a Dio, mediante “obbedienza della fede”. Se il tratto più profondo di agape, dell’amore testimoniato e predicato da Gesù, consiste nell’essere una forza affettiva che conduce all’unità, il disegno eterno di Dio che si manifesta realizzandosi nella storia risulta essere effettivamente un disegno d’amore, con il proprio centro nel Signore Gesù. Non dobbiamo quindi temere la volontà di Dio su di noi, ma piuttosto siamo chiamati a ricercarla in pienezza: essa infatti coincide con il nostro bene più proprio e s’afferma provvidenzialmente – attraverso il mistero della Croce – rispettando il nostro libero arbitrio, conducendoci a vera libertà.
La prima lettura e la pericope evangelica possono essere immaginate come un abbraccio che, tenendo insieme la profezia messianica dell’Antico Testamento e il compimento narrato dal Nuovo Testamento, ci restituisce la bellezza del disegno dal punto di vista del concepimento del Messia nella linea genealogica davidica. Il Secondo libro di Samuele presenta la promessa che Dio, attraverso il profeta Natan, fa a Davide: il suo regno sarà saldo per sempre davanti a Lui, grazie ad un discendente che Dio stesso donerà al re d’Israele. Con questo discendente davidico, presto riconosciuto come il Messia atteso dal popolo eletto, Dio stesso avrà una relazione singolare: “Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio”. Parole, queste, che potevano essere interpretate in molti modi dai sapienti d’Israele, ma che ricevono un senso nuovo e meraviglioso da quando si ha notizia della storia di Gesù di Nazareth accolta alla luce del mistero dell’Incarnazione e del mistero pasquale di morte e risurrezione. In questo senso, la pericope lucana offre l’interpretazione del testo del Secondo libro di Samuele nel momento stesso che ne racconta la realizzazione.
Che il racconto lucano dell’Annunciazione intenda collocarsi sulla linea aperta dalla profezia di Natan risulta piuttosto evidenti da alcuni rimandi testuali. In primo luogo Maria è presentata come “una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide” e, successivamente, viene ribadito che il figlio che nascerà riceverà dal Signore “il trono di Davide suo padre”, mentre “regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Colui che “sarà chiamato Figlio dell’Altissimo” nascerà da una giovane ragazza di una povera regione ai margini della Terra Santa, così come dell’Impero romano. L’Eterno entra nel tempo, l’Incarnazione si compie per l’obbediente consenso di quella giovane, chiamata a gioire nel profondo – come la Città Santa visitata dal suo Signore nelle pagine dei profeti – a motivo del dono del Signore che l’ha voluta “piena di grazia”. Anche Maria, come Zaccaria, interroga l’angelo sulla modalità con cui questo evento di grazia si realizzerà in lei. Ma, a differenza di Zaccaria, la giovane di Nazareth pone evidentemente la domanda senza dubitare della sua realizzazione (“nulla è impossibile a Dio”), ma – al modo del teologo contemplativo – domanda all’interno della fede per far sì che il mistero risplenda anche alla luce del lumen naturale, oltre che alla “luminosa caligine” del lumen fidei. Partecipazioni della stessa luce divina, l’intelligenza e la fede aiutano l’uomo a relazionarsi consapevolmente col Mistero, senza porre alcun ostacolo alla sua comunicazione. Zaccaria, invece, come il razionalista contemporaneo lascia che la domanda si scagli sul Mistero, prima dell’adesione di fede, liberando la sua forza scettica che impedisce all’antico sacerdote di fruire il Mistero stesso. Per questo motivo Maria può cantare il Magnificat, mentre Zaccaria viene reso muto, almeno fino all’accettazione del nome di Giovanni per il proprio bambino. Le celeberrime parole di Maria Santissima, la prima credente, sono allora anche le parole di Colei che contemplativamente ha chiesto di approfondire il Mistero per la via dell’intelligenza: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
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