di CRISTINA UGUCCIONI
MILANO (da VATICAN INSIDER, 11.02.19)
Che in Europa – dominata da una cultura che indica la cura ossessiva di sé, l’indipendenza da ogni vincolo e l’ottimizzazione del godimento come strategia di felicità – il legame sociale si vada sempre più disgregando è fatto noto ed esperienza vissuta nella quotidianità. Che molti si impegnino ogni giorno, con letizia e fatica, passione e abnegazione, a rammendare questa Europa forse è evidenza meno nota, ma esperienza vissuta nella quotidianità. È quest’opera fine di rammendo, questo generoso lavoro di cura e di custodia attenta a tutti che impedisce al mondo europeo di sprofondare, che incoraggia e restituisce vita e vigore agli animi prostrati dalle prepotenze e dagli avvilimenti, così come agli animi abbagliati dagli idoli e assuefatti all’indifferenza e al narcisismo. Questa tessitura di legami buoni assume forme assai molteplici: una, che sta ancora muovendo i primi passi, è rappresentata da un gruppo di dialogo teologico islamo-cristiano costituito da intellettuali cattolici e musulmani (dieci, in maggioranza residenti in Francia) che lavorano insieme per costruire coesione sociale.
Di questo gruppo fa parte padre Claudio Monge, domenicano, 50 anni: particolarmente impegnato nel dialogo tra cristiani e musulmani, da 15 anni vive a Istanbul dove è parroco della chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo e responsabile del Centro Studi DoSt-i (Dominicans Study Istanbul, acronimo che significa “amico, compagno” in turco), entrambi situati nel quartiere di Galata, dove i domenicani sono presenti dal 1233. Autore del recente volume “Il martirio dell’ospitalità” (Ed. Dehoniane), in questa conversazione con Vatican Insiderpadre Claudio racconta la vita e il lavoro di questo gruppo.
Lei spesso afferma, un po’ provocatoriamente, che il dialogo islamo-cristiano non esiste: cosa intende dire?
«Non esiste se lo intendiamo come rapporto fra “universi religiosi”: ciò che esiste e va promosso è invece il dialogo fra persone cristiane e musulmane che accettano di incontrarsi e ragionare insieme. È questo il dialogo che pratico e questa, credo, la strada da percorrere. Non sono le religioni a confrontarsi, sono i credenti. Di solito chi afferma che il dialogo tra cristiani e musulmani sia impossibile esprime un pre-giudizio e non ha mai neppure provato a costruire vere relazioni».
Esistono molti gruppi di dialogo islamo-cristiano in Occidente e nel resto del mondo: quali le peculiarità principali del vostro?
«Il nostro è nato due anni fa per iniziativa del Servizio nazionale per le relazioni con i musulmani della Conferenza episcopale francese. Ne fanno parte cinque cattolici – Vincent Ferroldi, Colette Hamza, Emilio Platti, Adrien Candiard ed io – e cinque musulmani (sunniti): Djamel Djazouli, Denis Gril, Abdessalem Souiki, Mohamed Bajrafil, Omero Marongiu Perria.
Ciascuno di noi, oltre a svolgere attività accademica, ha la responsabilità, a vario titolo, di comunità o gruppi di fedeli: non siamo dunque intellettuali che vivono in una torre d’avorio, assorbiti esclusivamente dalla ricerca, ma operatori pastorali che – conoscendo i problemi, le difficoltà, i dubbi che le persone vivono quotidianamente nelle nostre società complesse – intendono farsene carico. Il nostro progetto si ispira parzialmente al Gric (Gruppo di ricerche islamo-cristiane), un gruppo di ricercatori universitari cristiani e musulmani nato in Tunisia che per circa vent’anni ha anche pubblicato testi (su vari argomenti) di grande interesse e ha ispirato la nascita di esperienze simili in Francia, Libano, Marocco e, più recentemente, in Spagna.
Il nostro gruppo vuole essere un “laboratorio di dialogo” il cui obiettivo primario non è la produzione di documenti o testi accademici: la Conferenza episcopale francese non ci ha dato un mandato preciso al riguardo. Ha invece domandato di sviluppare una dinamica di lavoro, ossia di conoscerci, di far crescere la fiducia reciproca trascorrendo del tempo insieme, di confrontarci con franchezza condividendo la riflessione su temi che reputiamo cruciali per la fede. Il nostro è lo scambio nella gratuità di un gruppo di credenti radicati nella loro fede e aperti al confronto che, mossi dal desiderio di incidere sulla società, lavorano per costruire coesione, promuovere e sostenere legami, smantellare pre-giudizi, disinnescare violenze».
Avete deciso di chiamare questo gruppo “Teologia in dialogo”: quali passaggi, quali riflessioni hanno portato a questo nome?
«Il nome lo abbiamo stabilito solo durante il nostro ultimo incontro, che si è tenuto al Cairo, presso il centro studi dei domenicani, da decenni impegnati nel dialogo interreligioso anche con la locale Università di Al-Azhar. Prima di approdare a questo nome – che esprime la comune volontà di dire le nostre convinzioni di fede convocando la razionalità – abbiamo trascorso intere giornate a ragionare insieme con parresia su cosa siano teologia e dialogo. A questi due termini, che spesso vengono dati per scontati, possono essere attribuiti significati diversi. Per noi è stato quindi necessario precisare cosa intendessimo per non incorrere in malintesi che avrebbero rischiato di minare l’intero processo di confronto successivo. Nelle nostre conversazioni i musulmani si sono generosamente spesi per definire cosa sia per loro la teologia. Nell’approccio classico di base dell’islam Dio deve essere ascoltato e obbedito: non si discute con Lui, né su di Lui. Il musulmano è colui che si abbandona alla volontà di Dio e a Lui si affida. La traduzione più esatta del termine islam non è sottomissione ma affidamento. Mentre nel cristianesimo il pensiero teologico ha una storia secolare ricca di contributi, soltanto negli ultimi tempi il mondo islamico ha cominciato a porsi domande teologiche, sia perché avanza la secolarizzazione e i fedeli musulmani vivono sempre più frequentemente in contesti sociali abitati da non credenti o da credenti di altre fedi, sia perché l’islam non è un monolite e le differenze esistenti al suo interno – oggi particolarmente evidenti – impongono una riflessione e la necessità di mediazioni. A rendere urgente questa riflessione è inoltre la violenza perpetrata in questi ultimi anni in nome dell’islam di cui sono vittime, in maggioranza, persone di fede islamica.
Omero Marongiu Perria, sociologo musulmano membro del gruppo, ce lo ha più volte ricordato: non si tratta più di riflettere sulla possibilità o meno di coesistere. La questione oggi è un’altra: cosa possiamo costruire insieme per il bene della società? Questo ci obbliga, come cristiani e come musulmani, a prendere in considerazione nuove domande: quale linguaggio per dire Dio oggi? Cosa significa coniugare ricerca teologica e cura pastorale dei fedeli? Come confrontarci con l’alterità? La diversità è una minaccia da cui difendersi o una ricchezza e una risorsa da scoprire e imparare ad apprezzare? Il nostro gruppo con pazienza, umiltà e molto lavoro si sta addentrando in questi interrogativi, consapevole che molte questioni toccano la vita quotidiana delle nostre comunità».
Avete già redatto uno statuto? E quali sono i punti più significativi?
«Non ne abbiamo ancora redatto uno scritto, ma condividiamo alcuni principi. Ne segnalo due: a) constatiamo che talvolta esistono differenze importanti tra cristiani e musulmani e quindi non sempre potremo giungere ad affermazioni condivise; riteniamo, del resto, che lo scopo principale del dialogo non sia quello di trovare necessariamente un accordo; b) lavoriamo credendo nella buona fede dei nostri interlocutori, rispettando le loro posizioni nate da un sincero attaccamento alla fede e prendendo sul serio i testi sacri degli altri. Quest’ultimo è un aspetto importante e per certi versi nuovo dal momento che per decenni, nel dialogo islamo-cristiano, ciascuno si limitava a partire da quanto la propria tradizione, le proprie fonti dicevano dell’altro».
Come si articola l’attività del gruppo?
«Ci riuniamo regolarmente due volte l’anno per quattro giorni, in genere a Parigi, e affrontiamo ogni volta un tema diverso: due di noi (un cattolico e un musulmano) preparano insieme un testo che costituisce il punto di partenza della discussione. Al termine dell’incontro redigiamo un nuovo testo sul quale poi, nel corso dei mesi successivi, continuiamo a lavorare precisando il nostro pensiero anche in relazione alle riflessioni offerte dagli altri. Questo metodo di lavoro ci pare stia funzionando: da un lato ci consente di stare insieme e accrescere la conoscenza e la fiducia reciproca, dall’altro ci permette di restare in contatto e affinare le nostre posizioni tenendo conto di quelle proposte dagli altri. Nel nostro prossimo incontro, che si terrà a Parigi in marzo, ci confronteremo sul tema “quali linguaggi per dire Dio”».
Come giudica il dibattito pubblico italiano ed europeo a proposito dei rapporti tra cristiani e musulmani?
«Molte questioni che affrontiamo nel gruppo attraversano anche il dibattito pubblico che non di rado è acceso e scomposto: a dominare sono slogan ad effetto e frasi fatte che portano fuori strada e sovente esasperano gli animi e irrigidiscono posizioni già distanti. Nel suo piccolo, il nostro gruppo – conscio che la convivenza tra cristiani e musulmani richiede tempo e molto lavoro – cerca di stimolare riflessioni profonde, che superino il livello superficiale e facilitino la comprensione reciproca e l’edificazione del legame sociale. Nel dibattito pubblico odierno serpeggia anche, neppure tanto nascosta, una critica alle religioni monoteiste, considerate matrici della violenza nel mondo. In realtà, la violenza fa parte dell’umano. Nel nostro gruppo noi tutti lavoriamo convinti che le religioni possano significativamente contribuire a disinnescare questa violenza e portare pace.
Il recente storico viaggio di Papa Francesco negli Emirati Arabi e il Documento sulla fratellanza umana da lui firmato insieme al grande imam di Al-Azhar Al-Tayyeb ci incoraggiano a proseguire nello sforzo di “adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio”. In questo Documento mi pare anche fortemente sostenuta la necessità di non separare la riflessione teologica da una lucida critica dell’attuale modello di sviluppo che, accanto a indiscutibili progressi, sta portando a “un deterioramento dell’etica” e a “un indebolimento dei valori spirituali”. Nelle nostre esperienze pastorali constatiamo quanto tale modello contribuisca a diffondere frustrazione e disperazione, terreno fertile per il dilagare dell’estremismo ateo e agnostico e del fondamentalismo religioso. Per questo ci auguriamo che il nostro procedere “disarmati” possa dare un contributo alla “smilitarizzazione del cuore” dei credenti e di tutti i membri della grande famiglia umana».
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