18 aprile 2021

LETTURE: At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Nella terza domenica di Pasqua la pagina dell’evangelista Luca che viene proclamata riprende e sottolinea innanzitutto il tema della fisicità del risorto, che abbiamo visto anche nella domenica precedente. Gesù appare mentre sono presenti i discepoli di Emmaus – l’episodio è riportato nella sezione immediatamente precedente – ed essi, e gli altri che erano con loro, sono «sconvolti e pieni di paura», perché «credevano di vedere un fantasma». Ancora una volta, il Signore mostra loro le mani e i piedi, per poi affermare chiaramente: «toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che ho io». Ancora, Gesù chiede «qualche cosa da mangiare», e gli viene data «una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro».

Il Risorto, anzi, il primo dei risorti, mangia, si può guardare e toccare: non è un’apparizione eterea, e non ha rinunciato, nella sua gloria, alla carne. Si tratta di un dato fondamentale della nostra fede, che bisogna tenere ben presente: poco sappiamo di quale sia la condizione della «risurrezione della carne», che professiamo nel Simbolo della fede ogni domenica. L’idea cha possiamo farcene deriva soprattutto da quanto il Vangelo della risurrezione, nei racconti dei quattro evangelisti, ci riporta; e un dato sicuro è che – sebbene si tratti di una condizione diversa, da quella attualmente terrena – quella dei corpi gloriosi è a tutti gli effetti una situazione che non prescinde affatto dalla materialità. 

Per diversi secoli, fino al Medioevo centrale, e forse sulla scorta di una riflessione spesso influenzata da sistemi teologici e filosofici che i cristiani hanno via via incontrato, la predicazione e la riflessione anche dei dottori più insigni ha corso a volte il rischio di insistere sul disprezzo del mondo e della carne. Questo ha portato, in un momento storico ben preciso (nei secoli XII-XIII), al sorgere nel cuore dell’Occidente di un sistema di pensiero, anzi di vere e proprie chiese, che ritenevano il mondo materiale una creazione del diavolo, se non addirittura di un altro dio, malvagio, affiancato a quello che si individuava come il dio buono, signore del mondo spirituale. Non è un caso che in questi secoli cominci una riflessione, e una prassi pastorale, più orientata a meditare sull’incarnazione, sull’umanità di Cristo.

«Il Verbo si è fatto carne»: questo è l’annuncio fondamentale che la Chiesa non si stanca di ripetere; e ancora prima, poco oltre l’altro «In principio» che troviamo nelle Scritture – quello del Genesi, parallelo all’inizio del Vangelo secondo Giovanni, in cui si trova il passo invece appena citato –, sta scritto, alla fine dei diversi giorni della creazione: «E Dio vide che era cosa buona»; addirittura «molto buona», dopo la creazione dell’uomo. Come dice un altro passo, da libro della Sapienza, «le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» (Sap 1,14b). La risurrezione di Cristo è un altro principio: una nuova creazione, che restituisce tutte le creature, a cominciare dall’uomo, al destino di gloria per cui erano state fatte. Gesù ha vinto la morte, e ha sconfitto l’antico avversario; ha così cancellato la colpa del peccato originale, che aveva inquinato la creazione. Con questo, però, ha riconquistato ciò che era suo, e che il diavolo aveva ferito e usurpato: perché nelle creature del mondo, così come erano uscite dalle mani del Creatore, non c’era veleno di morte.

Cristo è allora davvero – per usare l’espressione riportata nel passo dagli Atti degli Apostoli proclamato in questa domenica – «l’autore della vita» (At 3,15): lo è innanzitutto come Verbo, per mezzo del quale «tutto è stato fatto» (Gv 1,3), e lo è come redentore, «vittima di espiazione per i nostri peccati» – come dice invece la seconda lettura (1Gv 2,2). Capiamo allora meglio anche quanto lo stesso Signore afferma nel Vangelo: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» – vale a dire, in tutte le Sacre Scritture di Israele: la Torah (i primi cinque libri), i Profeti (che comprendono anche quelli che noi indichiamo come «libri storici»), e il Salmi (parte di quelli che vanno sotto il nome di «agiografi», i sapienziali). «Allora – prosegue l’Evangelista – aprì loro la mente per comprendere le Scritture»: poiché, per usare una celebre espressione di Ugo di San Vittore (†1141), che abbiamo già ricordato una volta, «tutta la divina Scrittura […] parla di Cristo, e tutta la divina Scrittura si adempie in Cristo» (Ugo di San Vittore, De archa Noe, II, 7). Si tratta di comprendere come vi si celi il mistero di Cristo, ma tutte le Scritture parlano dell’autore della vita: perché «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,16); egli è il Creatore, e colui che ha restaurato, e così compiuto una nuova creazione, ancora più mirabile della prima, che in vista di tutto ciò era stata pensata. Egli è «l’Agnello ucciso dalla fondazione del mondo»: il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega, il Signore della vita, e della vita eterna. 

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