17 marzo 2019

“Ciò che è più reale e anche più bello”

LETTURE: Gn 15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36

Il tema tradizionale della seconda domenica di Quaresima, presentato ogni anno secondo uno dei tre testi evangelici sinottici, è quello della trasfigurazione. «Il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante»: così l’evangelista Luca presenta ciò che avvenne «sul monte». Gesù assume un aspetto nuovo, si mostra in vesti molto diverse da quelle che i suoi discepoli erano abituati a vedere. Tutto ciò ha a che fare con quanto viene riportato immediatamente prima, in tutti e tre le versioni dell’episodio nei vangeli sinottici e cioè, nel dettato di Luca (9,27) che leggiamo quest’anno, con quanto afferma il Signore: «In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto il regno di Dio». La divisione in paragrafi titolati delle nostre edizioni della Bibbia non ci deve trarre in inganno: il testo suggerisce un legame con quanto narrato subito dopo, dove l’evangelista prosegue dicendo che (9,28) «Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare». Vi è insomma una stretta consequenzialità: solo pochi giorni (otto per Luca, sei per Matteo e Marco) dopo aver detto che alcuni presenti non sarebbero morti prima di aver visto il regno di Dio, Gesù prende alcuni e sale sul monte, mostrandosi trasfigurato.

Come dobbiamo interpretare questo mutamento, questa «metamórphosis»? È una trasformazione passeggera, per cui il Signore si mostra con un aspetto straordinario ma in fondo avventizio, un’apparenza ulteriore semplicemente per dare prova della sua potenza, e certificare ai discepoli che la loro fiducia è ben riposta?

Certamente, quest’ultimo è un elemento che gli interpreti delle Scritture hanno sempre sottolineato: non a caso, del resto, leggiamo queste pagine in una domenica di Quaresima. Si tratta, come spesso si dice, di preparare i discepoli allo «scandalo della croce», a sostenere il vertice basso della spogliazione del Verbo incarnato, «fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,8). E tuttavia qui Gesù non fa appello a un miracolo, per così dire, una tantum: come aveva annunciato sei/otto giorni prima, si tratta del fatto che alcuni – Pietro, Giacomo e Giovanni – vedano il regno di Dio: ma egli stesso, innanzitutto, è il regno di Dio; ne è il capo, il principio da cui e per cui il regno si espande. È lui il re dei re e signore dei signori (Ap 19,16), venuto a riconquistare ciò che gli è proprio, e cioè l’intera creazione, che geme sotto il potere del principe di questo mondo, che il Signore è venuto a gettare fuori (cfr. Gv 12,32). Per questo, come dice l’Apostolo, la creazione intera geme e soffre nelle doglie del parto fino ad oggi (cfr. Rm 8,22), attendendo la rivelazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19): la creazione ci appare nel suo aspetto di sofferenza, ma anch’essa verrà trasfigurata, e anche noi saremo trasfigurati.

«Sul monte», allora, Gesù non assume un altro aspetto: semplicemente, lascia cadere il velo che l’attuale condizione pone davanti ai nostri occhi, e si mostra così come egli è veramente (cfr. 1Gv 3,2): vero Dio e vero uomo, di un’umanità divinizzata, splendente, in nessun modo più offuscata dal peccato, e qui nemmeno più dalle debolezze che il peccato negli altri uomini ha portato con sé, e che il Figlio divenuto carne, «in una carne simile a quella del peccato» (Rm 8,3), ha voluto assumere. A Pietro Giacomo e Giovanni, Cristo si manifesta in tutto il suo splendore: essi lo vedono già come noi lo vedremo un giorno, perché – per usare le parole della prima lettera di Giovanni – «quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2).

Questa trasfigurazione, in cui Pietro Giacomo e Giovanni possono vedere il Dio-uomo nella sua reale e più piena manifestazione, è il destino a cui tutti siamo chiamati, ciò per cui Cristo è venuto: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenga Dio», secondo una formula che troviamo in Atanasio di Alessandria, ma che in realtà i Padri ripetono sempre di nuovo. Anche il creato è destinato a partecipare a questa «metamorfosi», a questo processo per cui lo stesso non è più uguale a prima. Ciò che ora a volte appare a sprazzi, quella vita vera, quella bellezza che cogliamo nel creato, e che a volte ci colpisce, come se vedessimo per uno squarcio, nel velo grigio che copre tutto, è in realtà la realtà più vera della vita e delle cose, e il suo destino ultimo di compimento.

Si tratta di una prospettiva che il mondo orientale ha saputo cogliere e rendere chiave interpretativa e di rappresentazione nelle figure delle icone, così diverse e stranianti, e così cariche di fascino e di «gloria» – la manifestazione della grandezza. In esse vi è la tensione a cogliere la trasfigurazione del reale che la santificazione comporta: là dove lo splendore assume e ricompone perfino la violenza subita dal martirio.

A ben vedere, si tratta dell’attitudine opposta a quella così diffusa, a partire dall’ultimo secolo almeno, a sospettare della bellezza e della grandezza. Scriveva Jean Daniélou in Miti pagani e mistero cristiano, a proposito di questo: «Ciò che vi è di più bello deve necessariamente essere illusione, il reale non è altro che spregevole. […] Se ne può essere convinti. Ma crederlo significa essere infedeli alla testimonianza autentica del cuore». Viceversa, la nostra fede, la fede in Cristo che si mostra trasfigurato, insegna un’altra cosa: «Ciò che è più reale è anche più bello. Credere nell’esistenza di Dio esprime questa opzione».

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