la fatica del servo”

20 gennaio 2019

LETTURE: Is 62,1-5; Sal 95; 1 Cor 12,4-11; Gv 2, 1-11

“Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: Riempite d’acqua le anfore”. Spesso leggiamo il vangelo – quando non è in maniera distratta, credendo già di conoscere quel brano! – attenti a cogliervi il messaggio, l’insegnamento spirituale o morale; facendo così, sintetizziamo, ci concentriamo solo su ciò su cui abbiamo appuntato la nostra attenzione e che ci sembra essere il cuore del testo, il suo “succo”, e lasciamo cadere come non necessario tutto il resto, i particolari e quant’altro. In un brano come quello odierno, così ricco di simbologia, che si presenta come una vera introduzione – “l’inizio dei segni” – a tutto il quarto vangelo, l’attenzione si può soffermare su vari aspetti, certo tutti degni di considerazione e di attenta riflessione: il ruolo di Maria, ”l’ora” di Gesù, il vino buono e il suo rimando eucaristico, la gioia della festa nuziale, davvero riuscita quando c’è Gesù… Inoltre questa domenica segue immediatamente quella del Battesimo del Signore e con essa costituisce una dilatazione della solennità dell’Epifania (“Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo, accorrono i magi con i doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”: così canta l’antifona al Benedictus del 6 gennaio, unendo arditamente e magnificamente questi tre eventi della manifestazione del Signore)… Così, e non senza ragione, si finisce per trascurare il particolare di quel versetto che abbiamo riportato sopra. Ma una volta tanto crediamo che sia utile metterlo in evidenza.

Sei anfore di pietra, capaci ognuna di un centinaio di litri, devono essere riempite d’acqua, apparentemente senza alcuna ragione, visto che il loro scopo era altro, servivano per la purificazioni preliminari di rito, non per la mensa. Per riempirle bisogna attingere al pozzo (c’è da sperare che il pozzo fosse vicino!) con un recipiente più piccolo, capace al massimo di una decina di litri: come minimo sessanta viaggi, forse non lunghi ma certo faticosi, e in più la fatica di versare l’acqua nelle grosse e pesanti anfore. Tutto senza una spiegazione, per di più senza sapere nemmeno chi è colui che ha dato un simile ordine.

Eppure lo fanno. Molto semplicemente, erano lì per servire ed hanno servito. È grazie a questa fatica, inconsapevole, immotivata e non riconosciuta, eppure compiuta, che l’acqua ha potuto diventare vino.

Ripetiamo: non è certo questo il contenuto principale di questo brano evangelico. Eppure la fatica dei servi che si deduce dalla notazione apparentemente inutile sulla capacità delle anfore non ci pare da trascurare. Anzi, può offrire una chiave per leggere le altre letture di questa domenica.

La prima ci parla, come altri straordinari passi del terzo Isaia, della felicità finale che attende la città santa, Gerusalemme,  al di là dell’oscurità del momento presente. La deportazione in Babilonia, l’incertezza del ritorno, la pena della ricostruzione, trovano senso in un futuro sognato, se non intravisto. Il profeta invita ad alzare lo sguardo e a scorgere, lontana ma certa, la gioia perenne della festa nuziale che attende la sposa ormai cinta dal suo sposo. Finalmente, superata l’opacità di un presente che sembra non consentire di levare lo sguardo, avvolto come è nella ripetitività di gesti inutili e stanchi, è data per pura grazia la possibilità di “cantare un canto nuovo” così da “annunciare a tutti i popoli le meraviglie del Signore” (Salmo responsoriale).

Siamo all’inizio dell’anno liturgico, da domenica prossima ritorneremo a seguire passo passo Gesù nel suo ministero, guidati dall’evangelista Luca. Quest’oggi riflettiamo su un nuovo anno che si apre apparentemente sempre uguale agli altri, sulle nostre fatiche che avvertiamo spesso così noiose e inutili, costretti, come spesso ci sentiamo, a fare quello che non vorremmo e che, se dipendesse da noi, mai sarebbe fatto… Siamo un poco come i Giudei esiliati a Babilonia, ormai rassegnati, o come i servi del banchetto a Cana di Galilea, che chissà quanto hanno mugugnato: eppure a poco a poco le anfore sono state riempite e, grazie alla presenza di Gesù, quell’acqua si è mutata in vino. Su una esistenza che ci sembra sempre replicare se stessa, avvolgendosi nella trama sempre uguale dei giorni, la Parola di Dio fa brillare la possibilità reale che in Gesù il miracolo si compie e l’impossibile diviene possibile. A ben vedere è proprio questa la festa di nozze sognata dall’antico profeta, per Gerusalemme e per tutte le genti, e che in Gesù trova l’inizio della sua realizzazione: “Tu hai tenuto da parte il vino buono finora”.

In questa prospettiva non è difficile leggere anche lo stralcio della prima lettera ai Corinzi, che continueremo a leggere in queste domeniche: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”. Non c’è chi non abbia ricevuto dallo Spirito di Dio un dono particolare, sia pure il più semplice e meno appariscente. E tutto è dato per l’utilità comune, nell’edificazione dell’unico corpo. Lasciando a pochi i carismi straordinari, dobbiamo riconoscere l’ordinarietà di quello che ci è stato donato. Ma ciò che è ordinario è forse più utile dello straordinario. Fare ogni giorno quello che ci è dato di poter fare, adempiere fedelmente ed umilmente ai nostri compiti, in una parola dire lietamente e semplicemente al Signore: “Sia fatta la tua volontà, io voglio ciò che tu vuoi!”, ecco, questo vuol dire aprire la strada all’irruzione della gioia di Dio nella nostra vita, vuol dire iniziare a scoprire che l’acqua, faticosamente attinta e trasportata, è diventata vino.