sotto le Due Torri – tiene l’orazione funebre. Dell’avvenimento e, prima, di Assunta Viscardi ne scrisse Enzo Biagi, giornalista che, giovane cronista de Il Resto del Carlino, nel gennaio 1939, l’aveva incontrata. Oggi, 9 marzo 2022, nell’anniversario della morte di Assunta, proponiamo alla lettura, l’articolo di Biagi… a conoscerla anche noi.

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Dicono che la signorina Assunta Viscardi un giorno sarà fatta santa. Lo ha detto anche un prete durante i funerali: «La Chiesa – ha precisato – si occuperà presto di lei, della sua vita tutta spesa a fare del bene». La faranno santa e metteranno grandi quadri sugli altari col ritratto della maestrina che aiutava i poveri: chi sa se le copriranno la testa con quel cappellino di feltro marrone, quel cappellino da pochi soldi, che portava una sera d’inverno del 1939, quand’io la conobbi. Facevo il cronista e mi dissero di andare a trovarla, per cavarci mezza colonna e non di più; nevicava ed io non avevo voglia di cercare una maestrina che faceva della carità, immaginavo una vecchia zitella bigotta, di quelle che si occupano con morbosa tenacia di cani o di bambini. Via Rolandino era buia e feci fatica a scovare il portoncino della «Pia Opera di San Domenico per i Figli della Divina Provvidenza»: entrai in una stanzetta fredda, piena di strana roba, una culla, materassi, vestiti, brocche, un cavallo a dondolo, liberi, vasi da notte, un pendolo, un cappello da bersagliere. C’era una vecchietta che tremava e mi ricordava «La sgnera Catareina di Testoni», grassoccia e petulante. Mi disse che «la signorina» avrebbe tardato poco, anche quei signori la aspettavano. «Quei signori» erano una ragazza dalle labbra molto rosse e dalla faccia gialla, che teneva tra le braccia un bambino nato da poco che si lamentava di continuo, un ometto sulla sessantina con in testa una tuba e protetto da un mantello, la «capparella», come la chiamano qui, un giovanotto molto robusto che doveva essere stato più volte in contatto con la «benemerita»1 e due donne di quelle che al mattino presto vanno a spazzare gli uffici o le trovi anche di gennaio a sciacquar panni nell’acqua gelida del canale. La vecchietta sembrava, oltre che una assistita, la custode del locale e dei vari arnesi che riempivano alcuni scaffali. Aspettando catalogavo quelle cose disparate, stavo a sentire quella gente che attendeva, chiaccherando, l’arrivo della «signorina». Il giovanotto rbusto fissava con attenzione la ragazza dalle labbra rosse che badava a dire che lei non poteva tenerlo e che il padre chi sa chi era, e dove era, e non si può lavorare con un bambino dietro: «Speriamo che me lo prenda», concluse con un sospiro. L’ometto dal mantello aveva un’aria decorosa e faceva composti giochi al bambino per tentare di calmarlo, e il giovanotto, per ammazzare il tempo, mi domandò una sigaretta. Le due donne avevano bisogno di aiuto, raccontavano, perché una aveva il marito richiamato e molti figli, e l’altra molti figli ma non il marito. Parlavano delle loro miserie con disinvoltura, come le signore di combinazioni o di un film, mentre i due uomini ascoltavano e tacevano, indifferenti. Finalmente «la signorina» arrivò, i poveri dissero tutti assieme «buonasera» e lei rispose sorridendo. Prima sbrigò il giovanotto che mise in tasca qualcosa e se ne andò senza salutare nessuno, poi il vecchio le parlottò in un orecchio, la maestrina frugò un poco negli scaffali e tirò fuori, con molta soddisfazione, un paio di mutande da uomo, di quelle lunghe, coi legacci in fondo, che l’individuo in tuba esaminò attentamente, incartò, e portò via. Toccò, chiamiamole così, alle due operaie; una voleva mettere «la più piccola» in collegio, all’altra serviva un materasso e lo ebbe. Una sola disse: «Pregherò per lei», e aveva gli occhi lucidi. Poi fu la volta della ragazza col figlio, e la signorina Assunta le chiese: «Fai sempre quella vita?», la donna fece di sì col capo. «Vuoi lasciarlo vero?». La donna fece di sì ancora, poi scoppiò a piangere, forte, senza ritegno. Allora vidi la mestrina che l’abbracciava: «Non fare così», diceva, coraggio, «non fare così». Ma la ragazza continuava a piangere, e allora la signorina Assunta aprì la borsetta, le diede il cavallo a dondolo. «Gli piacerà più avanti», disse e pregò la donna di tornare nel pomeriggio del giorno seguente: «Vedrai che qualcosa combineremo, lasciami pensare. Ma non devi piangere, non devi fare così». «Io», dissi, «ho bisogno di qualche notizia, per il giornale. Quello che lei fa per i poveri, mi racconti ciò che crede». «Parli dei poveri», disse, «c’è tanto bisogno». La guardavo e mi accorsi che non era poi tanto vecchia, anzi aveva qualcosa di molto giovanile nel comportamento, qualcosa di fresco e di lieto che molti perdono con gli anni. Era simpatica, per niente zitella, una donna come tante, all’aspetto; la trovai anche graziosa. Mi mostrò un libro: «È la mia strenna: ogni anno ne scrivo una», e dei foglietti che erano il giornalino dell’Opera, e lei scriveva tutto, col nome di Vittoria, dalla prima all’ultima riga. C’erano pagine di calde invocazioni a Gesù, molto mistiche e dense di sentimento. Mi parvero, sinceramente, assai gonfie d’espressioni eccessive, ma erano valutate col metro della mia debole fede, e altre che narravano casi di tanti disgraziati bisognosi di aiuto: prostitute, nobili o benestanti che avevano perduto ogni bene, ladri, serve sedotte e abbandonate, orfani, infermi, ogni specie di sciagura e di tristezza, e quelle storie che «Vittoria» scriveva alla buona, quelle storie che scriveva di notte, col cuore stanco e malato, con lo stomaco che conosceva il bisturi e doleva, dopo avere corretti i compiti degli scolari e tracciato il bilancio della sua istituzione paurosamente passivo, arrivavano a toccare anche persone come me, che facendo un mestiere che porta a conoscere tante facce faccende belle o brutte e a giudicarle sempre in funzione di piombo e di titoli, hanno messo assieme un certo scetticismo. Vi era, nel giornalino, una rubrica «Desideri», che annotava le necessità di una numerosa schiera di sconosciuti: «Gianni è piccolo e vorrebbe una tromba», «Mi occorre del latte Mellin», «Mariuccia, che si sposa, ha bisogno delle scarpe»: erano le occasioni che «Vittoria» offriva al prossimo perché facesse un atto generoso e si conquistasse, se ci credeva, un merito in paradiso. Perché la maestrina, che per vent’anni ha corso tra collegi, ospedali, case equivoche, prigioni, salotti, canoniche, scuole, non chiedeva ai suoi amici poveri alcun documento, né religioso né politico, e neppure il nome dell’assistito. Nopn aveva regole, né burocrazia. È morta a cinquantasei anni, dilaniata dal male, e dietro alla cassa di quercia che conteneva il suo corpo leggero c’era un lungo corteo, frequentatori di via Rolandino. Tante Mariucce, Gianni, tanti ometti con la tuba, giovani traviate, e ache facce note alla polizia. Non so chi, quest’anno, compilerà la strenna, chi scriverà il giornalino. Io spero, un giorno, di vedere la maestrina in San Pietro: ma non le facciano, i pittori, l’aureola attorno al capo. Era una santa allegra, simpatica, portava un cappellino di panno marrone, da pochi soldi, e penso che quei raggi che dissolvono attorno alla testa non le piacerebbero, farebbe ridere Santa Assunta Viscardi, che correggeva compiti e abbracciava le prostitute disperate. Enzo Biagi2.

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E, anche proposta, la preghiera con l’auspicio della felice conclusione del processo di canonizzazione:
O Dio nostro Padre, fonte di ogni bene, Ti ringraziono per averci donato Assunta Viscardi, tua serva fedele. Durante la sua vita amò i bambini poveri più di se stessa, per condurli a Gesù Cristo Tuo figlio e nostro salvatore. Fa’ che imitiamo il suo esempio e, per sua intercessione, concedi le grazie che Ti chiediamo. Per Cristo nostro Signore. Amen.
1 Titolo dell’Arma dei Carabinieri.
2 Enzo Marco Biagi (Pianaccio di Lizzano in Belvedere – BO, 1920 – Milano, 2007) è stato un giornalista, scrittore e conduttore televisivo. L’articolo dal titolo: Ho conosciuto La Santa, è pubblicato su: Bollettino – Ente Pia Opera di San Domenico per i figli della Divina Provvidenza, Febbraio – Marzo 1958 – N. 1.
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