13Incontro con il padre provinciale, fra Fausto Arici, o.p.
Politica, Comunità e Bene Comune in San Tommaso D’Aquino. Sabato 13 dicembre 2014
Il giorno 13 dicembre 2014 si è svolto, presso il convento domenicano dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia, l’incontro mensile del gruppo di Gioventù Domenicana.
Questo gruppo, sorto ormai da quasi due anni, è composto da giovani di diversa provenienza territoriale, che intendono vivere la propria vocazione cristiana nel solco tracciato dal Santo Padre Domenico, e dall’ordine da lui fondato nel XIII secolo. Il gruppo, di volta in volta, riflette su argomenti differenti, ma sempre concernenti il ruolo del cristiano oggi, in un’ottica di formazione e di apostolato, tentando di tenere sempre presenti, e di vivere sulla propria carne viva, quelli che sono i pilastri della vita domenicana: preghiera, studio, vita comunitaria. Uno studio votato alla formazione e, conseguentemente, all’apostolato e all’apertura verso gli altri. Uno studio inteso come dimensione compartecipata, in cui si compie il senso più profondo dello stare in comunità e dell’essere tutti ordinati, gli uni agli altri, e tutti insieme verso il fine e lo scopo ultimo di ogni esistenza umana: Gesù Cristo. La preghiera, comunitaria e meditata, come linfa e fonte viva a cui attingere, e con la quale “nutrire” le nostre vite, per affrontare da cristiani gli ostacoli del mondo.
Durante l’incontro del 13 Dicembre, il padre provinciale ha tenuto un intervento riguardante la politica, la comunità e il bene comune secondo San Tommaso D’Aquino.
Resoconto dell’incontro
Durante l’incontro, fra Fausto ha illustrato come uno degli apporti più significativi dati da san Tommaso allo studio della politica, riguardi la questione di uomo inteso per natura come animale sociale. Concetto mutuato da Aristotele, il quale parlava dell’uomo come animale politico, ma riformulato ed ampliato dall’Aquinate.
Il Dottore Angelico considera la dimensione sociale come propria dell’uomo per sua stessa natura, l’uomo non sceglie di essere un animale razionale e sociale, bensì lo è nel suo stesso essere. Per spiegare meglio questa condizione sociale dell’uomo, san Tommaso utilizza la distinzione tra ad melius esse e ad esse. La socialità non è qualcosa che ci rende migliori di quanto siamo, non è ad melius esse, bensì è ciò che ci rende quello che siamo, ci rende autenticamente umani, e quindi è ad esse.
Questa distinzione è fondamentale, proprio perché noi uomini contemporanei, sulla scia del pensiero dei grandi intellettuali moderni che hanno riflettuto sul concetto di politica (John Locke, Jean Jacques Rousseau, Thomas Hobbes ecc.) siamo abituati a considerare la socialità dell’uomo come qualcosa di aggiunto rispetto alla sua natura. Molti di questi autori moderni, ricordati come “contrattualisti”, pur con le loro proprie peculiarità, hanno in comune l’idea che ogni uomo è per natura indipendente dalla sua condizione sociale. Dopodiché, rendendosi conto che da soli è più complicato “ammaestrare il mondo”, l’uomo decide di “mettersi in società”, “di stipulare un contratto”, con gli altri esseri umani. Questa visione moderna è chiaramente ad melius esse, in quanto l’uomo stringe patti e si mette in relazione con altri uomini per fini pratici, per migliorare la sua vita.
Questa visione è diversa da quella tommasiana, secondo la quale, se un uomo non manifesta la sua volontà di stare “in società” con gli altri, o meglio, se non manifesta il suo essere sociale, significa che il suo essere uomo è incompleto. Aristotele dice che in mancanza di tale tensione intima, o si è una bestia o si è un Dio! In ogni caso non si è autenticamente uomini, proprio perché l’uomo è nella sua essenza razionale e sociale.
Quindi l’uomo è ontologicamente un animale sociale ma, questa tensione verso gli altri deve concretizzarsi nella propria vita, deve attualizzarsi nella storia. Le prime difficoltà sorgono proprio nell’atto di concretizzare il desiderio di stare con gli altri. Gli ostacoli che si frappongono tra noi e l’appagamento della nostra aspirazione sociale sono, secondo L’Aquinate, propri della nostra condizione di creature, e quindi esseri in un certo senso incompleti, dal nostro essere toccati e segnati dal peccato e, inoltre, dalla possibilità di essere ostacolati dal male che si può esplicitare attraverso gli altri.
Proprio per aiutarci a oltrepassare questi limiti, Tommaso D’Aquino si serve del concetto di comunità (communitas). La comunità deve essere intesa come uno stare insieme di individui che vivono una esperienza di unità (unitas). Unità intesa come unità accidentale, cioè come un insieme di elementi diversi che costituiscono qualcosa di unito. Quindi, formano una comunità tutti quegli individui che sono ordinati insieme nel raggiungimento di un fine o scopo condiviso, il quale unisce ed indirizza gli stessi membri.
La comunità è una unitas ordinis, una unità d’ordine, proprio perché gli uomini che costituiscono la communitas sono tali non perché tutti uguali, ma perché tutti ordinati insieme verso il perseguimento dello scopo comune. Il concetto di ordine è fondamentale in Tommaso e vuole significare il disporre le cose nel modo più idoneo e conveniente al raggiungimento di un dato fine. Essereordinati verso uno scopo da raggiungere.
All’interno della comunità, intesa come unitas ordinis, ogni uomo, secondo la propria inclinazione, è ordinato verso gli altri e, tutti i componenti, sono ordinati insieme verso il perseguimento del bene comune. Comunità come unità con gli altri.
Il bene comune, per il Dottore Angelico, non può essere pensato a prescindere dal bene personale e viceversa. Ciò si spiega attraverso un chiarimento riguardo a cosa sia il bene. Per Tommaso, il bene ha a che fare con il desiderio di portare a compimento e perfezione ciò che siamo e, essendo l’uomo un animale razionale e sociale, il bene di ogni singolo uomo consiste nel portare a compimento la propria dimensione razionale e sociale perciò, conseguentemente, compiendo il bene personale, si compie anche il bene comune. Allo stesso modo, ogni qual volta si persegue il bene comune, automaticamente si persegue anche il proprio bene personale.
Un gravoso ostacolo risiede nel non esservi uniformità nel rappresentarsi questo bene comune. Difficoltà data dalla nostra dimensione creaturale e di vulnerabilità; e da qui la necessità di ricevere degli ausili che portino a compimento e rendano fermo il nostro desiderio, e che ci ordinino verso il Bene. Tommaso identifica, fra l’altro, questi aiuti in due obbligazioni: quella del diritto (giuridica) e quella dell’autorità (politica).
Circa la dimensione giuridica è centrale il concetto tommasiano di iustum (giusto). Ciò che è giusto è una res (cosa), ciò significa che ciò che è giusto non è una modalità relazionale per avvicinarsi all’altro, ma è qualcosa di concreto, è una res iusta. Giustizia altro non è se non un adeguamento a qualcosa che è giusto in sé. In tutto ciò la legge risulta essere una formalizzazione dell’adeguamento a ciò che è giusto. La legge è una ordinatio rationis ad bonum commune, cioè un ordinamento (non banalmente un comando) della ragione per il perseguimento del bene comune. La legge è quindi un ausilio, perché ci predispone verso il bene attraverso l’uso della ragione. La legge in Tommaso non può essere banalizzata alla sola nozione di precetto o comando.
L’obbligazione politica, per Tommaso, è intesa come auctoritas. Il Dottore della Chiesa si distanzia da un concetto di autorità di matrice neo platonica ed agostiniana, ricordando come la dimensione dell’autorità deve muoversi da ciò che è reale, senza vagare troppo nella teoria.
Per spiegare il concetto di autorità in Tommaso può essere utile rifarsi a quanto il Santo scrive commentando il capitolo tredici della lettera ai Romani di san Paolo apostolo. San Paolo parla dell’autorità dicendo che essa non può esservi se non da Dio: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio[…]”. Il pensiero neo platonico ed agostiniano, interpretando queste parole, arriva alla conclusione che per essere legittimata, l’autorità deve essere partecipata da Dio. Tommaso, con la sua impostazione aristotelica, prende le distanze da questa interpretazione; egli per decifrare le parole di Paolo, si rifà al versetto otto dello stesso capitolo tredici della lettera ai Romani, in cui si dice che la perfezione della legge è l’amore vicendevole e, questa legge, è lo strumento dell’autorità. “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge […]”. Quindi, per Tommaso, un’autorità proviene da Dio, e quindi è giusta, se esercita le sue funzioni in un ordine di carità, cioè se è tutta tesa alla costruzione dell’amore vicendevole. Solo se strutturata in questo modo una auctoritas può dirsi legittima e al servizio della communitas.
Secondo l’Aquinate, l’auctoritas resta quello strumento che, attraverso l’amore vicendevole, accresce e indirizza la communitas albonum commune. È intesa come servizio ordinante al bene.
Il Santo domenicano ci indica il vincolo inamovibile che lega comunità, legge e politica. Non può esservi una comunità feconda, portatrice di buoni frutti, se essa esclude da sé la politica o la legge. Le idee di comunità tendenti a escludere la politica, e quindi l’auctoritas, si rivelano fallaci. Per esserci communitas è necessario che vi sia anche l’auctoritas, nell’accezione tommasiana: servizio ordinante e capace di predisporci verso il fine del bene comune.
Andrea Zanarini
Gioventù Domenicana Sant’Alberto Magno