Dal 1 al 16 luglio, tra Spagna, Francia e Italia, si è svolto il pellegrinaggio “Giovani Domenicani sulle orme di san Domenico”, che ha permesso a studenti domenicani provenienti da tutto il mondo di ritrovarsi insieme al Maestro dell’Ordine sulle stesse strade che ottocento anni fa furono percorse dal nostro fondatore. Per la nostra Provincia c’era fra Andrea Codignola, che ne parla in questa intervista
In un’intervista si usa il microfono, giusto? Prendiamo quel particolare microfono che amplifica e registra in noi l’interiorità dell’altro, ossia l’ascolto. Posso dire che l’Ordine, come ce lo fa intravedere fra Andrea, è la dimostrazione che la vita in Cristo non è fatta con lo “stampino”, dove tutti i frati nascono più o meno identici, quasi miniature o modellini di chissà quale fumettistico san Domenico. Ho ascoltato le parole di questo mio caro confratello – come ad esempio quelle sull’omologazione e sulla diversità come ricchezza – e mi hanno invitato a riflettere: ho compreso come per lui diventare frate significasse anzitutto diventare se stesso, ritrovarsi, riconoscersi nella propria irriducibilità.
Mi ricordo una frase del mio provinciale. Quando ero al termine del noviziato, reclinando sul naso le levigate lenti circolari, mi disse: «Sai chi diventa frate, fra Pietro?», «Chi padre?», «Tu. Il noviziato oramai sta finendo, è stato per te la preziosa palestra del discernimento che ti accompagnerà per la vita. Ti ha insegnato a guardare sempre dentro di te. Ora, però, uscirai dalla palestra e inizierai la vera gara, la verifica, se mi permetti un linguaggio scolastico. Mi capisci, fra Pietro? Una verifica che dura la vita intera, il discernimento che ti mette in contatto con te stesso quotidianamente, perché tu possa trovare Dio in te e te in Dio». Essere religiosi non significa schizzare il ritratto di un santino, laddove i santini sono sempre stampati su carta e mai su carne. Essere religiosi, per chi intraprende questa strada, significa essere se stessi e quindi dell’Altissimo: io sono veramente io quando sono nell’Io sono.
Quante volte, invece, vorremmo che il prossimo corrispondesse ai nostri gusti, quante volte lo vorremmo a nostra immagine e somiglianza, invece che imago Dei: lo diciamo da poco quando ci riteniamo migliori, ma nel contempo lo vorremmo complice delle nostre fragilità, quando ci reputiamo peggiori. In un’ultima analisi finiamo per rimproverargli entrambe le cose. La vita comune non funziona così: i miei gusti smettono di essere centro dell’universo e iniziano ad essere ciò per cui sono nati, strumenti non per rimodellare, ma per capire. Per questo un buon gusto è sempre tollerante dei dissapori. Non è buono quel gusto che serve a farci sentire più dolci le cose, ma è buono quello che ce le fa sentire come sono, nella loro poliedricità. È un invito ad accorgersi del confratello così come è, invito che questo capitolo continua a rivolgerci con urgenza.
È l’idea di convento. Tutti convergono verso un solo centro, cioè il Signore. Egli è l’Unica Via. Senza questo centro l’insieme della circonferenza si sfascia. Se alla fine non si è alter Christus si ha fallito il viaggio. Ma perché vi sia incontro, perché vi sia una certa convenienza, bisogna capire che l’altro, il fratello, ha un punto di partenza differente dal proprio, sia storico che caratteriale. Dio, infatti, come Abramo, lo chiamò da altrove.
Passiamo all’intervista a fra Andrea.P
Cosa ti aspettavi da questo pellegrinaggio sei partito e cosa hai trovato?
Direi che quello che mi aspettavo e quello che ho trovato si possano bene sintetizzare in due punti, sui quali il Maestro dell’Ordine ha particolarmente insistito durante il nostro pellegrinaggio: fra Bruno ci ha detto di non fare discorsi su chi siano di domenicani, ma di “guardare a Domenico”. Ci ha invitati a toccare con mano il suo vissuto attraverso i suoi luoghi e ci ha invitati a vivere la nostra vita di missione come l’ha vissuta il nostro fondatore: per la Chiesa, nella Chiesa e con la Chiesa.
Io personalmente prima di partire avevo chiesto la grazia della conversione per poter vivere sempre meglio il mio carisma di predicatore, nella misura in cui è necessario non solo dire il nostro sì al Signore, ma anche progredire sempre più nella sequela di Domenico, conformandoci a Cristo attraverso il suo esempio. Per questo posso dire che per me sia stato davvero importante e bello poter sperimentare questo “guardare a Domenico”, facendo veramente una grande esperienza di fraternità, di fede e di comunione.
Così, se dovessi sintetizzare in una frase quello che ho trovato, direi una grande esperienza di Ordine, una grande esperienza di Chiesa.
Che cos’è per te un frate itinerante? Ci diresti che esperienza hai fatto di questa figura durante un tale cammino di 16 giorni?
Penso che essere un frate itinerante significhi la totale disponibilità e sollecitudine per le esigenze dell’evangelizzazione, per portare la Parola di Dio che è Cristo. È sicuramente questa l’esperienza che ho fatto durante le due settimane di cammino. Nei fatti, la nostra è stata un’itineranza capace di sacrificio e di comunione. Vorrei ricordare l’omelia di un confratello diacono degli usa che, verso la fine del pellegrinaggio, quando eravamo tutti molto provati, citò i versetti: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi…”. Egli ci ha detto che negli sforzi di quegli ultimi giorni abbiamo avuto un assaggio e un’idea della fatica della predicazione di Domenico, della fatica che ci attenderà dopo la formazione. Ma questo ci deve essere di avviso: per predicare è fondamentale trovare riposo nel Signore grazia alla preghiera, alla contemplazione. Fare questo ci chiede veramente una manifestazione di fede in Dio.
Ecco, penso che queste sollecitazioni possano inquadrare bene la mia idea e il mio vissuto di cosa significhi itineranza: camminare ricchi di Dio verso i poveri di Cristo e riposare lungo il cammino nell’albergo della Chiesa, sul petto del Signore.
Tu eri nel gruppo dei francesi, giusto? Che impressione ti ha fatto essere dello stesso ordine, ma non della medesima cultura di altri tuoi confratelli?
Sì, essendo più di un centinaio, per facilitare la comunicazione nel visitare i diversi luoghi, eravamo divisi in gruppi linguistici, quattro per la precisione. Dunque, uno di lingua francese, uno di spagnolo e due di inglese.
Sinceramente posso dire che sia stata un’esperienza bellissima e molto intensa, un’opportunità unica di “vedere” l’unione e la cattolicità della nostra fede. Eravamo giovani da tutto il mondo che rappresentavano praticamente tutte le culture del pianeta. E tuttavia, grazie alla sincerità ed unità della fede, le nostre diversità non erano più un motivo di separazione, bensì di arricchimento. Passavamo così tranquillamente dalla polifonia tolosana alle chitarre, dall’organo ad alcune tipiche melodie delle comunità africane ed era veramente suggestivo vedere convivere felicemente insieme la fierezza culturale francese e la praticità statunitense, la composta riservatezza dei Vietnamiti con l’entusiasmo caloroso dei Latino-Americani. E sottolineo la parola “felice” nel suo senso più pieno di fecondità e vitalità: questa dimensione multiforme dell’Ordine non implicava negare o accantonare le proprie particolarità, ma condividerle facendosi conoscere. Questo non ci spingeva al sincretismo o al compromesso, ma soltanto ad essere noi stessi, a manifestare la nostra ricchezza: non si sentiva bisogno di mischiare nulla perché, appartenendo al medesimo Ordine, tutto già ci apparteneva.
Che esperienza di vita comune hai potuto fare e dove cambieresti (o non cambieresti) la vita comunitaria che vivi ogni giorno alla luce di quanto hai incontrato?
Il nostro vivere insieme è stato davvero una sacra praedicatio, dove, più che parole, si vedeva una vita fraterna vissuta intensamente e, beh, è stato un forte invito ad saper accettare e valorizzare i differenti doni dei confratelli che si concretizzano in differenti caratteri e sensibilità. Certamente la norma della fede, così come il vincolo della carità e della professione è uguale per tutti, ma ho avuto esperienza di come la fede non crei omologazione, ma unità e l’unità è sempre di una molteplicità. L’unità ecclesiale, poi, con un’arte tutta divina e particolare, sa come esaltare la complementarietà dei doni e dei caratteri di ciascuno.
Cosa cambierei e terrei della mia vita comunitaria? Beh, posso dire che non cambierei in nulla la vita comunitaria che vivo ogni giorno. Ciò in cui desidero crescere è il mio modo di vedere la diversità dei confratelli, cogliendola in ciò che è, ossia una reale opportunità di maturazione personale. In primo luogo accettando i limiti, cosa che penso essere una condizione essenziale per far tesoro del contributo di ciascuno alla vita comune e alla nostra missione. Non apprendere quest’arte, infatti, è un divorzio da entrambe.
Se dovessi dire una frase o un concetto di quei giorni che ti ha particolarmente edificato?Non direi, né una frase, né un concetto, ma direi un fatto, che mi ha permesso di rileggere con occhi nuovi tutta l’esperienza: più o meno a metà del pellegrinaggio, appena giunti a Tolosa, uno dei nostri confratelli pellegrini, un Polacco, ci ringrazia tutti per i bei momenti vissuti insieme in quell’esperienza unica. Sarebbe dovuto tornare a casa il giorno dopo: drammaticamente suo padre era morto.
Immediatamente 120 pellegrini si sono stretti attorno a lui e uno per uno lo abbiamo abbracciato e davvero si è avvertita, non solo la vicinanza di amici, ma la compassione di una stessa famiglia. Il suo lutto era diventato il nostro lutto. Fra Orlando ci ha dato la sua testimonianza in un momento così duro per un confratello: quando morì suo padre, nel vedere l’affetto della comunità stretta attorno a lui, ha capito che l’ordine era la sua famiglia. Noi abbiamo fatto la stessa esperienza: ci siamo sentiti famiglia. Siamo stati famiglia.