Riportiamo di seguito una riflessione di padre Marco Salvioli op, tratta dal suo blog l’Orso predicatore (clicca qui per l’articolo originale: Esprimere la fede con il linguaggio /  “Nostro Tempo” del 09 ottobre 2022).

Nella lettera pastorale Le ragioni di Marta, l’Arcivescovo Abate di Modena-Nonantola e Vescovo di Carpi, monsignor Erio Castellucci – dopo aver presentato le iniziative proposte per il secondo anno del Cammino sinodale, incentrato sui cantieri di Betania comuni a tutta la Chiesa italiana – ha proposto un ulteriore ambito di collaborazione: il cantiere del linguaggio. Pur trattandosi di un’iniziativa locale, introdotta non senza una cert’ilarità riguardo ai limiti espressivi del cosiddetto «ecclesialese», mons. Castellucci intercetta quella che è una difficoltà comunicativa molto più ampia e diffusa che insiste «sul linguaggio liturgico, sulla predica e sulla catechesi». Se è vero, come osserva l’Arcivescovo, che «quando le nostre comunità cristiane, pur con i loro difetti, assomigliano alla “casa di Betania”, diventano attraenti, perché armonizzano l’ascolto della parola di Dio, l’ascolto degli altri e il servizio», continuare ad adottare un linguaggio incomprensibile ostacola decisamente questo processo di armonizzazione divino-umana e l’attrazione di grazia che ne deriva.

Se la comunità ecclesiale ha il dovere di comunicare in modo da farsi comprendere da coloro ai quali si rivolge all’interno come all’esterno di essa, risulta altrettanto doveroso far attenzione – nell’allestire il cantiere – a non cedere all’illusione che sia sufficiente “tradurre” il linguaggio cristiano-cattolico nel linguaggio socialmente diffuso o, peggio, tentar meramente di “rivestire” il primo coi panni apparentemente più efficaci del “così oggi si dice”. Sono secoli che la Chiesa sa che «quel che è ricevuto è ricevuto al modo del recipiente» («quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur»), con tutta l’attenzione che questa consapevolezza comporta per la continua accordatura del proprio annuncio sul modo in cui possa essere compreso dalle donne e dagli uomini a cui rivolge la Parola che, a sua volta, ha ricevuto in dono. Il linguaggio è infatti una sorta di organismo culturale “vivente” e, come tale, si trasforma continuamente col procedere della storia: costituisce la duplice condizione di possibilità tanto della tradizione grazie alla quale abbiamo ricevuto la stessa concreta possibilità di parlare (“lingua materna”), quanto dell’innovazione attraverso quell’elevata elasticità che permette non solo di dire “nuovamente” le stesse cose, ma anche di dire cose effettivamente “nuove”.

È questa sorprendete duttilità, fatta di persistenza e mutabilità, a far sì che il linguaggio ci renda capaci di comunicare non solo tra contemporanei, pur di lingue diverse, ma anche con coloro che hanno vissuto ieri o che vivranno domani, risuonando «di generazione in generazione». Questa vitalità fa sì che alcune espressioni con le quali abbiamo imparato a parlare decadano dall’uso e diventino quindi desuete, altre risultino addirittura così usurate da non significare più nulla, mentre compaiono continuamente nuovi modi di dire. La comunità ecclesiale non può non assumersi, sempre di nuovo, il compito di riflettere sul proprio modo di comunicare per verificare se – nel dar voce all’esperienza di fede che la rende tale – parla in modo significativo oppure se si limita a ripetere espressioni ricevute che, risultando estranee o mutate rispetto al linguaggio di chi le ascolta, finiscono per non dire più niente, se non perpetuare se stesse. È chiaro che, se si dovesse cedere a questa forza d’inerzia, l’annuncio cristiano si auto-confinerebbe prima in una sorta di ghetto linguistico, per poi scivolare nell’insignificanza.

Al di là di alcuni accenti non più attuali, la riflessione condotta da Edward Schillebeeckx, O.P., negli anni Settanta del Novecento può risultare ancora utile per comprendere che cosa implichi aprire un cantiere sul linguaggio impiegato dalla comunità ecclesiale. Mi riferisco, in particolare, al breve saggio Crisi del linguaggio di fede quale problema ermeneutico (in «Concilium» 5, 1973, pp. 48-65). Dopo aver mostrato come il linguaggio cristiano di fede, derivante dalla stessa rivelazione divina, ha una relazione costitutiva con il divenire storico-culturale, il teologo domenicano fa notare che il riconoscimento di una crisi linguistica può essere segno della vitalità di una comunità credente che cerca di «enunciare nuovamente, in un rapporto vivo (critico) col presente, ciò che fu manifestato in Gesù». Non si tratta, quindi, né di un’operazione di marketing religioso, né di adattarsi al linguaggio mondano dominante, ma di “sperimentare” – nel rispetto di ciò che si è ricevuto, col desiderio esprimerlo oggi per annunciarlo a coloro che incontriamo e incontreremo domani – un modo efficace di dire “Cristo” onorando il legame tra le parole della fede in Lui ed il contesto quotidiano in cui ne facciamo esperienza, proprio nel vivere come le altre donne e gli altri uomini del nostro tempo. Se vi è una fede viva, non senza tanta fatica e qualche fallimento, sarà sicuramente possibile trovare le parole adatte per esprimerla all’interno e al di fuori della comunità dei credenti.

È l’esperienza di Cristo nella Chiesa che sostiene quella tensione creativa necessaria per “lavorare” sul linguaggio ecclesiale, evitando di proiettare sull’annuncio le nostre espressioni più consuete, rivestendolo nell’illusione di renderlo più comprensibile, ma lasciandoci piuttosto “illuminare” dalla Parola accolta oggi affinché plasmi criticamente quelle stesse espressioni affinché divengano le parole “giuste” per un’omelia o una catechesi, ma anche per un semplice discorso tra amici… casomai davanti ad una buona birra! Come ha insegnato papa Francesco: «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (Evangelii gaudium, 115). Anche solo per questo, la Chiesa è chiamata a tenere sempre aperto il “cantiere” sul linguaggio con cui esprime il Dono che ha ricevuto.