Non ardeva forse il nostro cuore quando ci spiegava le Scritture?

26 aprile 2020

LETTURE: At 2,14.22-23; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

Una delle forme più semplici dell’omelia è la rievocazione di un testo arricchendolo di spiegazioni ed esortazioni. Naturalmente l’efficacia del procedimento esige che si preveda dove collocare gli ampliamenti, così come bisogna prevedere come e dove e attaccare gli ornamenti all’albero di Natale, i cui rami sarebbero… i versetti del testo preso a base dell’omelia! Questo metodo funziona molto bene con il vangelo di Emmaus.

Noi speravamo… (vv. 13-24) indica il fallimento di un sogno, per cui il cammino dei due non è di conquista o di speranza, ma di ritorno e di delusione. L’attualizzazione sui piani pastorali falliti e su i vari “Speravano che dopo il Concilio e invece…” si spreca. La delusione condanna all’incapacità di leggere i segni: la presenza di Gesù (v. 16) e la testimonianza delle donne (vv. 22-23), preferendo il pessimismo di altri (v. 24). Ma la difficoltà è che i due non riescono più a sperare dopo la croce di Cristo (v. 20): e qualcuno nel “secolo breve” non ha forse concluso che dopo Auschwitz non è più possibile né la poesia né parlare di Dio? Tuttavia «Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro» (v. 15). I vv. 14-15 usano il verbo “homilein”, cioè “conversazione familiare”, per cui l’omelia di Gesù si inserisce nell’omelia dei discepoli. Ed è per questa presenza che i due di Emmaus ci riguardano, non per la delusione, che non fa che confermarne tante altre.

E cominciando da Mosè… (vv. 25-27). Dopo il rimprovero «stolti e lenti di cuore» (v. 25), l’omelia di Gesù ripropone la croce come ermeneutica delle Scritture. È il discorso di Pietro nella prima lettura ed è ciò che fa la Chiesa ogni domenica nella liturgia della parola: non svela un versetto in più dimenticato, ma guida come per mano a comprendere le Scritture a partire da quel «non bisognava…?» con la luce e la forza di Gesù ormai “entrato nella gloria” (v. 26).

Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero… (vv. 28-31). L’invito a cena accettato e il gesto di Gesù di spezzare il pane (v. 30), sono sufficientemente allusivi al sacramento dell’Eucaristia. È qui dove ancora oggi Gesù viene conosciuto e in Gesù attingiamo alla pienezza delle Scritture. Ma proprio mentre si aprono gli occhi dei due, Gesù sparisce dalla vista. L’insegnamento è chiaro: quando si è riconosciuto Cristo attraverso le Scritture e l’Eucaristia non c’è più bisogno di una sua “apparizione”. Gesù “sparendo” colloca i due di Emmaus – colloca noi – nella condizione ordinaria della vita cristiana.

Non ardeva forse il nostro cuore mentre ci spiegava le Scritture? (v. 32). Narra un testo del Talmud che mentre due rabbini «si misero ad occuparsi delle parole della Torah, passando dalla Torah ai Profeti e dai Profeti agli Scritti, un fuoco discese dal cielo e li circondò» e all’allarme dei presenti risposero: «Queste parole sono divenute gioiose come lo erano quando furono date sul Sinai, e il fuoco si è messo a leccarle, come le leccava sul Sinai» (Talmud di Gerusalemme, Chaghigah 2.1; 77 b 27). In Cristo dovrebbe essere normale ripetere la stessa esperienza ogni domenica e se il presbitero (il vescovo!) «è come “l’icona” di Cristo Sacerdote», allora da lui ci si attenderebbe che…

Partirono senza indugio… (vv. 33-35). Da qui nasce l’apostolato: prima l’incontro e la “narrazione” con i fratelli della fede, poi – l’evangelo non lo dice ma noi possiamo attualizzarlo – l’annuncio del vangelo agli “altri”. Ma senza il cuore ardente è possibile la narrazione? è possibile che gli altri credano? Viene in mente una battuta attribuita al card. Biffi che, a fronte di un interminabile discorso sulle difficoltà di linguaggio per comunicare la fede oggi, commentò: “Forse è più un problema di temperatura…!”.

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