“Don, ma che differenza c’è tra un prete e un frate?”, “Ma alla fine cosa farai di tanto diverso?”, “Allora vista da un lato la tua vita cambierà di brutto, ma rimarrà quello che conta di più per te”…
I 1.100 metri di dislivello da Pian del Rosso (1.520 m.) alla cima del Mongioje (2.363 m.), percorsi da me e dal mio Clan nell’afosa giornata del 16 agosto, densi di fatica fisica e psicologica, svegliano però nei miei scout la voglia di capire la mia scelta. Sono stati forse loro, Andrea, Maria Laura e Chiara, più di ogni altro, con la loro adolescenziale sete di verità e la loro pretesa quasi fiscale di coerenza negli adulti, a mettermi di fronte alla necessità di formulare con chiarezza le ragioni e le conseguenze del mio voler abbracciare la vita domenicana. Le loro obiezioni, i loro commenti, le loro domande hanno colpito il cuore della questione, tralasciando gli aspetti più esteriori. Sono stati proprio loro tre, durante le soste e durante il cammino di una route durata sette giorni a spingermi a rendere ragione di questa scelta, a voler isolare il quid, ossia l’ identità.
Ogni individuo è chiamato a collaborare attivamente con il Signore a creare la verità della sua identità. Questo compito comporta un cammino non di rado costellato di incertezze ma segnato in maggior misura da conferme, da segni forti di una volontà. Una volontà che è difficile leggere nella sua completezza e che a volte, all’apparenza, si riveste dei panni della casualità. I disegni di Dio agli occhi dell’uomo a volte si manifestano nella stessa maniera improvvisa e imprevedibile con cui Eliseo si vide chiamato dal Signore attraverso Elia. (1 Re 19,19). “Operare la propria identità in Dio” – scriveva Thomas Merton in Pensieri nella solitudine – “è lavoro che richiede sacrificio e angoscia, rischio e molte lacrime. Richiede ad ogni momento un attento esame della realtà, una grande fedeltà a Dio, al Suo oscuro rivelarsi nel mistero di ogni situazione”. Il desiderio di abbracciare la vita religiosa per un sacerdote secolare comporta, come per chiunque altro, una profonda revisione di sé, la preparazione a lasciarsi rivoluzionare in maniera quasi copernicana dallo Spirito Santo.
Se dovessi pensare a una immagine capace di esprimere la rappresentazione che ho di me stesso in questo momento della mia vita, sceglierei quella di una statua di bronzo. La statua è stata progettata, fusa e collocata la suo posto e lì è rimasta qualche anno ma il risultato finale non era quello che l’artista aveva precisamente in mente. A un certo punto egli, rotto ogni indugio, prende la statua e la rifonde. Non può sapere in anticipo quale sarà il risultato. Il desiderio di qualcosa di diverso, di più rispondente all’immagine mentale che si è formato però c’è. C’è la volontà di rispondere a quello stesso invito che Cristo rivolse ai suoi primi discepoli “Venite e vedrete” (Gv 1,39).
“Ma non eri felice?”, “Non è che stai fuggendo da te stesso?”, “Non stavi bene qui con noi?”. Le domande, le obiezioni molto più prosaiche dei miei parrocchiani più anziani, postemi in piazza del paese al termine della festa patronale di San Bernardo, mi riportano alla necessità del confronto con ciò che sono e sono stato. E’ la saggezza molto schietta e, oserei dire, molto ligure nella sua praticità, di Giovanna, Mimuccia e Mario, figli di una società contadina obbligata a fare sempre i conti con lo scandirsi delle stagioni e le ferree esigenze di una vita pratica, a pormi di fronte a un’altra questione: il perché di una scelta.
Ogni scelta inevitabilmente comporta un lasciarsi dietro qualcosa di positivo. Se sono l’uomo, il cristiano, il prete che sono oggi lo devo proprio a loro, ai miei parrocchiani. E per questo non cesserò mai di ringraziare il Signore per avermi fatto il dono di essere pastore di quella comunità. Nel mio intimo sapevo tuttavia di essermi collocato in una realtà che non era precisamente quanto il mio cuore desiderava. Il nostro continuare a lavorare con Dio nel creare la nostra identità può rischiare a volte di avere dei momenti di stasi. Si può scegliere di accontentarsi. Si può sfuggire alla responsabilità di operare con Dio e lasciarsi lavorare da Dio giocando a mascherarci, a vivere con dovere, onestà e passione un ruolo che nel profondo del cuore si sente non perfettamente congruente al disegno che Egli ha per noi. E’ stato ancora Thomas Merton a ricordarmi come questo modo di vivere sembra accontentare tutti perché libero e creativo ma come alla fine esso a lungo andare costi e faccia soffrire notevolmente. “Quando non si vive la propria vera vocazione, il pensiero offusca la vita, o si sostituisce ad essa in modo che la vita soffoca il pensiero ed estingue la voce della coscienza”. E’ necessario invece scegliere di cercare nella verità quello che è un disegno molto chiaro nella mente del Signore, inizialmente oscuro nella mente dell’uomo ma che gradualmente si disvela. “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo” (Ger 1,4).
“Ma perderai la tua autonomia!”, “Sì, ci provi, ma sei sicuro sia la strada giusta?”, “Dovrai ricominciare tutto da capo”. Solo chi ti conosce bene come un amico o un cugino e ha seguito passo per passo un cammino, segnato da gioie e difficoltà può prendersi così a cuore il tuo futuro. Sono stati loro, Federico, Daniele, Nicola, quelli che mi conoscono da “prima”, se non da sempre, a essere più solleciti nel farmi riflettere sul futuro. Loro che mi conoscono a prescindere dal mio sacerdozio, loro che forse conoscono più a fondo l’umanità nella quale si è radicato il sacramento dell’ordine. E’ questa la terza questione che si propone ora nella mia vita: quella del dopo.
Noi non possiamo conoscere con anticipo e con certezza quale sarà il risultato del lavoro di ricerca profonda della nostra vocazione e della nostra identità. “Il segreto della mia piena identità è nascosto in Dio” scrive ancora Thomas Merton. E’ infatti solo lui a dare pienezza alla mia identità. Se tuttavia però scelgo di non mettermi in cammino con Lui e desisto dal cercare la mia identità con Lui e in Lui, quest’opera rimarrà incompiuta. Il modo per farlo è un segreto che posso apprendere solo da Lui. Tutto nasce dalla fede, dal gettarsi con coraggio. E il coraggio nasce dalla forza che ci comunica il Signore stesso. E tale forza, così dinamica, sembra strano ,a sua volta trae origine da un atto che solo all’apparenza è tutt’altro che dinamico: la contemplazione. Solo essa infatti può aiutarmi a capire realmente ciò che Egli vuole da me. Il vortice che si crea fra l’anima e Dio nella contemplazione è capace di dissipare ogni dubbio, un vortice che nasce dal fondamentale riposare del nostro cuore in Dio: mai come in questi ultimi anni ho capito la profonda verità della frase di Sant’Agostino “Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te” (Conf. 1,1). Solo l’affidamento può vincere l’incertezza e la paura. Da bambino avevo una dannata paura del buio, lo credevo popolato di creature che non avessero altro interesse che quello di terrorizzarmi e nuocermi. All’età di sei anni, mio padre, una sera d’agosto, in montagna, dopo cena mi chiese di andare a camminare con lui. Camminammo a lungo e le nostre ombre si distesero sempre di più, finché l’oscurità non ci avvolse, proprio mentre ci addentravamo in un bosco. Percorremmo ancora un lungo tratto di strada e poi ci volgemmo indietro. Avevo camminato in un buio rischiarato solo a tratti dal pallido chiarore della luna, in un silenzio rotto dai rumori del bosco. Non avevo provato paura, però. Perché mio padre era con me. Avevo vinto il terrore del buio grazie alla forza che la sua presenza mi aveva comunicato. Nella vita spirituale penso sia analoga la questione: è l’affidarsi all’amore di Dio, alla certezza della sua presenza nel nostro quotidiano. “Nell’amore non c’è paura” (1 Gv 4,18).
“L’uomo sa di aver trovato la propria vocazione quando cessa di cercare come si deve vivere e incomincia a vivere. Quando troviamo la nostra vocazione pensiero e vita sono una cosa sola”. E’ ancora Thomas Merton a darmi una utile indicazione per il mio futuro prossimo e remoto. Il dubbio, l’incertezza, la paura sono estremamente umani, come ci insegna San Pietro sul lago di Tiberiade. Il Signore ci chiede di avere coraggio, di non temere, tuttavia gli chiediamo dei segni che formino in noi certezze assolute: rimane nel nostro profondo tuttavia un timore. La certezza che però la salvezza può venire solo da Lui è cristiana. Il fiduciosissimo e tutt’altro che disperato, elementare grido “Signore, salvami!” (Mt 14,30) di Pietro è il cartello stradale che mi indica oggi a Chi guardare per affrontare con fiducia il mio domani. Solo con il Suo aiuto e nell’ascolto della Sua voce potrò trovare le risposte più vere e complete. Quindici giorni fa, in cima al Mongioje, mentre sui fornelletti da campo sobbolliva una zuppa liofilizzata, contemplavo con i miei scout il placido succedersi delle catene frastagliate degli aspri monti liguri e piemontesi. Di fronte all’immensità e alla bellezza del creato mi sono sentito terribilmente piccolo e fragile, bisognoso di Qualcuno per avere forza, solidità, sicurezza. In quel preciso istante posso dire di avere fatto esperienza profonda di un verso della Scrittura che ho sempre amato ma che ora vivo “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra.” (Sal 120,1-2).
L’immagine è di padre Lacordaire, celeberrimo domenicano francese, prima prete.