Quest’anno sono diciotto; tutti gli anni, ormai da decenni, più o meno una ventina; hanno generalmente tra i venti e i quarant’anni, sono studenti, operai, impiegati, professionisti, sia maschi che femmine. Sono i Turchi che chiedono di diventare cristiani e iniziano da neofiti il percorso del catecumenato. Tre anni di preparazione prima di ricevere il battesimo: è meglio non essere avventati, avere modo di conoscere e di farsi conoscere, soprattutto bisogna lasciare tutto il tempo perché le motivazioni vengano approfondite e la fede che si intende abbracciare venga spiegata nei suoi contenuti e nelle sue implicazioni. È un fatto che sorprende chi si avvicina alla realtà di questa chiesa in Turchia (lo stesso avviene ad Istanbul), che a prima vista potrebbe apparire una chiesa a servizio solo dei levantini superstiti o di chi si trova qui per lavoro. Inoltre il governo, ossequiente alla laicità kemalista, non ha mai permesso attività religiose esterne, figuriamoci un’opera di evangelizzazione che qui apparirebbe soltanto come un provocatorio e offensivo proselitismo. Se il kemalismo tendeva a eliminare la presenza della religione dalla vita pubblica (certo adesso, con il cosiddetto “islamismo moderato”, le cose sono cambiate) questo ha sempre valso soprattutto per i cristiani o per gli ebrei, non certo per i musulmani. Così i Cristiani, ortodossi, cattolici, armeni che siano, sono sempre stati tollerati, ma non potevano e non possono permettersi di uscire dal limitato spazio loro concesso (le chiese, in Turchia – e questo già dal tempo dei sultani – non affacciano direttamente sulla strada, ma sono nascoste da un muro che vela il cortiletto davanti all’ingresso e se ci sono i campanili questi altro non sono che un supporto per le campane, certo non svettano come i minareti; le campane, però, possono essere suonate!) e quindi non hanno alcuna visibilità.
Eppure… nessuno sa dare una spiegazione esauriente, le storie sono tutte differenti (c’è chi ha letto il vangelo, chi è affascinato dal papa, chi si è innamorato di una ragazza cristiana e vuole condividerne la fede, chi ha scoperto la vita cristiana navigando in rete) ma incessantemente lo Spirito spinge dei giovani Turchi a bussare alla porta della chiesa per entrarvi e partecipare alla sua vita.
Così, se fino a poco tempo fa la liturgia era sempre celebrata in francese o in italiano, sempre di più adesso si deve celebrare in lingua turca. Così il cristianesimo non è più soltanto un ospite ma diventa a poco a poco parte viva del paese. E sarebbe meglio dire che torna ad esserlo, visto la fioritura cristiana che per quindici secoli ha colorato questa terra.
Suor Crocifissa e suor Roberta sono a Smirne da più di quarant’anni: c’era una dozzina di altre loro consorelle i primi tempi che erano qui. Venute per far scuola ai bambini italiani a poco a poco hanno visto trasformarsi la loro opera e la loro presenza. La scuola è gestita da privati e ormai i bambini, per lo più, sono di famiglie di qui, musulmane più o meno praticanti: così nella scuola c’è uno spazio riservato a chi vuole fare la quotidiana preghiera rivolto alla Mecca e la grande cappella non serve più. Ma suor Crocifissa e suor Roberta continuano a stare lì, a contatto con insegnanti e bambini, e continuano a trasmettere lo spirito che da sempre le anima: attenzione all’altro, rispetto, pazienza, gentilezza, impegno. Guai a pensare di chiudere, di ritornare in Italia: c’è tanto da fare per loro qui! Se non sono i bambini della scuola, sono gli anziani da visitare, i malati da assistere, la comunità dei cattolici che ha bisogno della fervorosa presenza della vita consacrata (sono le uniche religiose qui a Smirne), anche semplicemente di qualcuno che si occupi della biancheria dell’altare…
Al sabato sera, nel salone della parrocchia affidata ai frati domenicani, una piccola comunità di neocatecumenali celebra l’eucaristia. Da poco qui è parroco fra Igor, che ha coraggiosamente accettato di venire a sostituire fra Stefano, storico parroco morto un anno fa. Fra Igor appartiene a una comunità del cammino neocatecumenale e ha coinvolto il movimento attorno a questa sua nuova destinazione. Così si è deciso di mandare qui quattro famiglie “in missione”, a vivere cioè intensamente qui la loro appartenenza alla chiesa e a cercare di coinvolgere altri in questa avventura di fede. Per ora ci sono due famiglie di Istanbul, con ben otto bambini, e un padre venezuelano che prepara la casa per la famiglia che presto la raggiungerà; un’altra famiglia è attesa, e anche due donne nubili. Nel frattempo questa piccolissima comunità si riunisce, ascolta la parola di Dio e celebra la presenza viva del Signore Gesù in mezzo a noi. Ci si accorge che non c’è bisogno di sapere le lingue per capirsi ugualmente: la messa è celebrata in turco, perché così deve essere in questa terra, e fra Giuseppe (un altro frate della nostra comunità domenicana) fa da interprete. Chi sa solo l’italiano o lo spagnolo comunque non è tagliato fuori… e così, pregando, ascoltando, cantando, stando vicini, il Signore si fa presente e la comunità, a poco a poco, cresce per lui, con lui e in lui.
Il mattino dopo celebro la messa in francese (erano più di vent’anni che non mi capitava, temerariamente ho anche fatto l’omelia!) per la ventina di persone che da sempre è abituata a questa liturgia della domenica alle 10. Ma c’è anche un giovane turco convertito, non capisce la lingua ma vuol comunque partecipare alla messa, sa di incontrarsi con il Signore, il resto non conta. Al pomeriggio, con il vescovo, si va a un’altra messa, in un’altra parrocchia che celebra la festa parrocchiale, oggi 11 febbraio, memoria della Madonna di Lourdes. Ancora una celebrazione turco-francese-italiana, ancora la stessa gente che qui a Smirne vedi un po’ sempre in chiesa, ma anche altri: giovani neofiti turchi, europei temporaneamente qui per lavoro o per servizio e, sorprendentemente per me, un piccolo gruppo di studenti africani che ha animato la liturgia con dei canti eseguiti magnificamente. Non era folklore, ma senso profondo di ciò che si stava facendo, gusto della preghiera e della bellezza.
Levantini, turchi, neri, ma ci sono anche le donne filippine venute qui a far le domestiche, c’è la piccola comunità dei cattolici coreani, ci sono i giovani militari della NATO. C’è questa terra che il buon Dio ha messo lì, a fare da ponte fra i continenti e i mondi, le fedi e le culture. E ci siamo anche noi, frati domenicani ostinati a rimanervi perché ci piace stare nei luoghi-ponte.
fra Enrico Arata