Lettera di fra Vincent De Couesnongle (1975)
Carissimi fratelli in S. Domenico,
con questa lettera indirizzata a tutti i religiosi dell’Ordine vorrei dare l’avvio, assieme a ciascuno di voi, a una riflessione che dovremo poi condurre innanzi, negli anni che seguiranno. Rendere l’Ordine più vitale, sempre meglio capace di realizzare la propria missione di «evangelizzare in mezzo al mondo il nome del nostro Signore Gesù Cristo»: ecco quale dev’essere la nostra grande passione.
(…) Sicché ciò di cui più abbiamo bisogno è il coraggio.
Non ci basta un coraggio qualunque, bensì quello che sostenne la vita di S. Domenico. Il coraggio del canonico di Osma che lascia il Capitolo che gli dà sicurezza, e al seguito del proprio vescovo si incammina per strade mai percorse prima. Il coraggio dell’apostolato che si stabilisce a Fanjeaux, in mezzo agli eretici. Il coraggio del fondatore il 15 agosto, a Tolosa, allorché disperde ai quattro venti il suo manipolo di frati. Il coraggio del missionario che, una volta consolidate le fondamenta dell’Ordine, sogna di poter andare tra i Cumani per dispensare tra essi le sue forze residue. In breve, il coraggio di Domenico, cioè il coraggio dell’“uomo evangelico”, dell’uomo che seppe vivere nella fede lo slancio d’una speranza senza limiti.
II coraggio di S. Domenico, dunque, fu il coraggio di chi, anziché aggrapparsi a un certo passato per la sola ragione che è “il passato”, si appoggia ai valori essenziali e permanenti che il passato racchiude, ma per meglio guardare in avanti e andare avanti: il coraggio del futuro. (…)
Il “coraggio del futuro”
Potremmo ricondurre i tratti caratteristici di questo “coraggio del futuro” alla capacità di avere uno squarcio nuovo e alla disponibilità verso il rinnovamento; ma bisogna aggiungervi, come sua sorgente più profonda, la speranza in Dio.
a – Sguardo nuovo
Possedere il coraggio del futuro è prima di tutto la capacità di considerare l’intera realtà con occhi nuovi. Siamo portati a vedere le cose non già come esse sono, bensì come le abbiamo catalogate in precedenza e una volta per tutte. Ciascuno di noi organizza rapidamente il proprio modo personale di condurre l’esistenza, e una propria gerarchia dei valori… E forse dipende precisamente da tale modo di guardare la realtà il fatto che si invecchia più in fretta.
Ora, il Cristo ci ha insegnato a vedere le cose, la gente, gli avvenimenti con occhi nuovi, ossia in una maniera che fino a quel momento era stata assolutamente ignota. Egli ha predicato un regno in cui i valori erano rovesciati, nel quale gli ultimi diventavano primi, la peccatrice era preferita ai farisei, e il delinquente ravveduto entrava in paradiso.
E il Cristo a rivelarci il vero volto delle cose. Bisogna andare al di là delle apparenze, dietro le maschere e le facciate. Gli uo mini e tutto quanto li interessa – amori, speranze, appelli, gioie, rimpianti, sofferenze – raramente ci appaiono nella loro verità immediata, nativa, allo stato grezzo potremmo dire.
Occorre anche saper andare oltre quel limite fin dove giungono a vedere i nostri occhi di uomini. Le cose hanno dei valori che eccedono le loro apparenze. Sono infatti segni dei tempi, tappe dell’itinerario verso Dio, messaggi di Dio. Bisogna saper riconoscere la grazia di Dio operante in questo “mondo migliore” che tentiamo di costruire. Dietro qualunque realtà si trova una verità “ulteriore”, che forse ci costerà fatica scoprire, ma che sempre, in ogni caso, ci riporta a Dio.
Uno sguardo nuovo su noi stessi. Ho detto “sì” al Signore quando mi chiamò al servizio della sua Parola. Cosa ne ho fatto di quel “sì” lungo l’arco del tempo? Uno sguardo nuovo sopra l’Ordine. Qual è il mio giudizio al suo riguardo? Uno sguardo nuovo sugli altri, sul mio prossimo: tanto prossimo da risultarmi forse noioso, ingombrante, così da distruggere magari il nido che mi ero costruito; oppure tanto lontano che io non mi imbatto più in lui, neppure quando si tratta del mio vicino di tavola… Uno sguardo nuovo sul mondo. (…)
È lo sguardo del profeta, questo osservare le cose con occhi nuovi. Sono i medesimi occhi di ieri, ma che vedono più lontano. Ora, non siamo noi, in forza della nostra vocazione, i profeti di un mondo nuovo, di un mondo migliore ancora in gestazione? (cf. Liber Constitutionum et Ordinationum Fratrum Ordinis Praedicatorum (LCO) n. 1 § V; n. 99 § 1). Se avremo una simile capacità di guardare avanti, le parole che diremo non cadranno nel vuoto; non si tratterà di parole che offrono soluzioni belle e pronte – buone per ognuno, che è come dire: per nessuno. Le nostre parole verranno ascoltate da persone, comunità, istituzioni reali. Dobbiamo essere capaci di stabilire un contatto con chi ci ascolta, di comunicargli qualcosa che risuonerà nell’intimo di un’esistenza. Così diverrà possibile un dialogo. Ed esso non sarà più allora uno sguardo che una parola? Prima d’essere una parola, non dovrebbe essere uno sguardo reso più acuto in forza della carità?
«E straordinario come le nostre idee si trasformino, quando ne facciamo una preghiera», è stato detto. Pregare con le proprie convinzioni significa riconsiderarle alla luce di Dio, sotto il suo sguardo. Quanto muterà il nostro modo di vedere la realtà, quanto si arricchirà della Verità di Dio, se sapremo pregare così in qualunque circostanza…!
b – Disponibilità ai mutamenti
Il mondo d’oggi è “creatività”, il che non indica semplicemente una espressione alla moda, bensì una delle parole-chiave del nostro tempo. Impossibile sfuggirle. E ciò che vale per ciascun uomo vale in maniera particolare per il frate Predicatore, il quale, nell’annuncio dell’eterna Parola di Dio, deve farsi “contemporaneo” di coloro ai quali si rivolge. Come tale, dunque, egli deve mettersi al passo con l’evoluzione del mondo. Quindi, pena il tradimento della propria vocazione, egli deve dar prova di creatività nella sua missione evangelizzatrice.
Per sua natura, un frate Predicatore deve sentirsi a suo agio nel grande movimento che sta interessando l’umanità, se si considera che l’Ordine nacque in un periodo in cui la vita culturale e le strutture sociali dell’Occidente subivano profonde trasformazioni. L’intera nostra storia documenta come noi Domenicani siamo stati contrassegnati da questa apertura verso tutto ciò che è nuovo, verso ogni spunto di novità. Forse che i più grandi Domenicani del passato non hanno dovuto affrontare situazioni che parevano senza uscita, dando prova di possedere proprio uno spirito creativo?
Creatività, disponibilità ai mutamenti, coraggio di fronte al futuro sono un tutt’uno inscindibile. Per affrontare il futuro occorre saper riconoscere con lucidità i limiti di ciò che si compie; bisogna vivere nell’inquietudine del più e del meglio, saper prendere atto della propria insufficienza – ciò che noi facciamo non è forse irrisorio rispetto all’immensità del nostro compito? – ed essere spronati dal senso dell’urgenza. Il tempo stringe per quanti non hanno ascoltato la Parola che salva !
Non si può dire che manchi il lavoro da compiere, nella maggior parte dei conventi e delle province. L’importante è che certi interrogativi restino costantemente davanti alla nostra coscienza: non si potrebbe far meglio? Esistono bisogni più urgenti che chiedono il nostro apporto per essere avviati a soluzione? Non sarà il caso di lasciare il “tale ministero” ad altri che lo farebbero ugualmente bene e forse meglio di me, per potermi dedicare a quell’altro apostolato che nessuno cura e che forse risponde meglio alla missione dell’Ordine?
Questa insoddisfazione, questa impazienza, che a volte possono divenire una vera e propria angoscia, sono fondamentalmente positive. E questa paura che in noi s’assopisca lo zelo apostolico, questo senso dell’urgenza, questa percezione dell’urgenza, tutto ciò deve in effetti essere, in ciascuno di noi e nelle nostre comunità, come una fonte di energie sempre rinnovate.
Non dobbiamo però concludere che i desideri e i progetti suscitati da una tale insoddisfazione debbono essere considerati come dei valori assoluti, che bisogna realizzare a ogni costo. Per molte ragioni attinenti alle concrete condizioni della nostra vocazione nella Chiesa, non sempre è possibile e nemmeno desiderabile dare corso all’intero programma. Rimane comunque questa inquietudine, che deve essere, in noi così come nei nostri fratelli e soprattutto quando si è capaci di metterla a frutto, una forza che alimenta l’ardore apostolico e ci aiuta a donarci più interamente all’opera che l’ubbidienza attende da noi in questo stesso momento.
Il posto dell’Ordine dei Predicatori nella Chiesa è in prima linea, alle frontiere, là dove bisogna saper inventare, aprire nuovi sentieri, uscire in ricognizione, dar prova di audacia. Spazi umani importanti e sconfinati, autentici “nuovi mondi” sono nati e si sviluppano al di fuori di un qualunque contatto con il Vangelo. Farvi risuonare la Parola che vivifica: non è forse questa la nostra vocazione?
Questa insoddisfazione, questa costante ricerca, questo tormento non li ritroviamo forse nella vita di S. Domenico? Non è forse questa santa ossessione a indurlo a esclamare, nel corso delle sue notti insonni ai piedi dell’altare: «Mio Dio di misericordia, che ne sarà dei peccatori?». Non lasciamoci ingannare: questo è un grido che non esprime solo preghiera d’intercessione: è pure l’interrogativo dell’apostolo alla ricerca del sempre meglio, che cioè interroga Dio circa la strada migliore da prendere per annunciare la salvezza.
c – Resi forti nella speranza
Noi siamo capaci di considerare la realtà di questo modo nuovo e di questa disponibilità al cambiamento, senza i quali non sussiste il “coraggio del futuro”? Abbandonati alle nostre sole forze, senza altro sostegno che quello di motivazioni affatto umane, no certamente. Ma noi siamo forti della medesima forza di Dio e della potenza stessa di Cristo, “nostra speranza”. Spe roborati, dunque: resi forti nella speranza.
Come la nostra fede e comunione con la fede alla Chiesa, così la nostra speranza si nutre della speranza della Chiesa. Con Abramo e coi profeti, mediante i grandi avvenimenti che segnano la storia del popolo eletto, l’Antico Testamento proclama la presenza del Dio che sa mostrarsi fedele alle promesse di misericordia, ed è insieme onnipotente. Tale speranza culmina nel Cristo, la cui potenza di risurrezione è sempre operante: «Io sono con voi per sempre, sino alla fine del mondo». Questo è il fondamento della speranza che anima la Chiesa. Dopo la sua ascensione, Gesù ha inviato, come aveva promesso, lo Spirito che rinnova e quasi crea di nuovo l’intera realtà. Lo Spirito resta sempre presente a nutrire e fortificare la speranza della Chiesa. La “speranza fanciulla” (la petite fille espérance, cara al poeta Péguy), è la Chiesa, questa madre sempre giovane, che senza sosta genera nel dolore un’umanità nuova, unificata nella carità del Cristo.
E in questa vitalità della Chiesa che si inserisce la nostra personale speranza e quella dell’Ordine, la nostra “speranza domenicana”. I primi Frati di S. Domenico erano persone come le altre. La dispersione del 15 agosto 1217 fu per loro un motivo di preoccupazione, di crisi. Tuttavia essi partirono, incoraggiati dalla sicurezza e dalla parola del loro Padre. Egli morì assai presto. Ma noi sappiamo quanto è stato compiuto dall’Ordine nel corso di quel XIII secolo. Sono i nostri antenati, e noi i loro eredi. Non siamo forse persuasi della sempre attuale (e forse più urgente che in passato) vocazione dell’Ordine nella Chiesa? Imitiamo S. Domenico, la sua purezza di cuore; la sua povertà, il suo tenere lo sguardo fisso su Dio, la sua passione per la salvezza. Egli volle sacrificare tutto per il bene delle anime. Anche i suoi libri. Noi, sempre tanto eloquenti nell’evocare questi e tanti altri dettagli della sua vita, che cosa facciamo in pratica? Anziché parole, il mondo reclama oggi uomini coraggiosi che si donino integralmente e osino parlare di Dio.
Imitiamoli. Gettiamo via le stampelle e altri accessori che assicurano la nostra comodità e ci fanno sentire soddisfatti con poca spesa. Anche a nostra insaputa, vorremmo avere in mano un avvenire costruito a nostro piacimento, ma esso ci sfuggirebbe immancabilmente non essendo quello inteso da Dio. Il “Maestro dell’impossibile” assai spesso si prende gioco dei nostri piani. Una certa oscurità è la comune condizione dei veri servitori di Dio. Non dobbiamo sforzarci a cercare di sapere dove Egli ci conduce: ciò che deve contare è innanzitutto la forza della fede, sempre operante in noi, e che lasci spazio all’iniziativa divina.
Che la nostra fiducia, divenuta costante, sappia essere contagiosa. Comunichiamola agli altri. Il coraggio è sempre contagioso, come purtroppo lo sono la paura, il dubbio, il disfattismo. Dividiamo con gli altri e soprattutto coi membri della nostra comunità questa speranza che in noi ha messo radici. Ognuno di noi sia cosciente della propria grande responsabilità verso i fratelli, in questo settore. Per il fatto che il mondo d’oggi è assordato dal rumore, l’appello di Dio si farà meno pressante? Il fatto che il peccato dilaga impedirà alla grazia di essere sovrabbondante? Lo Spirito Santo sarà divenuto all’improvviso avaro dei suoi doni?