Un frate studente è stato lì per qualche tempo…
Alla fine, la domanda arriva. Sicuro come l’oro. O in forma brutalmente diretta: “Ma voi a in Turchia che ci fate?” o in maniera più sfumata: “Cos’è che caratterizza la vostra presenza?”. Ci ho riflettuto a lungo, ma ogni risposta possibile mi sembrava povera, parziale, insufficiente. Poi, durante una mia breve permanenza nella nostra casa di Istanbul, mentre aprivo la chiesa, in uno dei giorni in cui è aperta alle visite, credo di aver avuto una buona intuizione: l’aspetto rilevante della nostra presenza è la nostra presenza.
Lo so che detto che detto così sembra ingenuo, forse addirittura irrealistico e rinunciatario, come se bastasse mantenere una presenza, ma credo che non ci sia una risposta più realista di questa. Quando la piccola, quasi invisibile porticina grigia, affacciata su una stradina a pochi passi dalla torre di Galata, si apre, succede sempre qualcosa: entrano molti giovani, per lo più musulmani che, abituati al clima aniconico delle loro moschee, e ancor meno abituati al silenzio che aleggia nelle nostre chiese, spalancano gli occhi per la meraviglia: gli sguardi corrono dall’immagine di san Domenico a quelle di san Tommaso e san Giacinto. In molti si soffermano davanti alla Madonna del Rosario e alla Vergine Odighitria.
Sbalordiscono la volta stellata sopra il presbiterio e l’altare con le due statue che rappresentano la legge antica e quella del vangelo e la fiammella che annuncia la presenza del Santissimo Sacramento. Molte volte le ragazze si velano, per rispetto, pur sapendo che non è richiesto. A volte fanno domande, quasi sempre molto precise, rispettose, che dicono un sincero interesse, in modo particolare sulla figura della Madonna. Una, in particolare, chiede spiegazioni sulla preghiera di consacrazione. Difficile non rimanere toccati profondamente da queste domande.
A volte entrano, in silenzio, per dare una rapida occhiata, quasi timidamente, ma anche questo è già un’occasione. Non si creano mai occasioni se si tengono le porte chiuse. Poi ci sono i cristiani di passaggio, alcuni dei quali cattolici: a volte si fermano il tempo di una rapida preghiera, a volte di più e, naturalmente i fedeli della piccola comunità parrocchiale (l’altra è nella zona di Bakirkoy).
In realtà, quella piccola porta grigia fa molto di più: accoglie, per esempio, studenti e ricercatori, che possono trovare una biblioteca molto ben fornita e un centro studi che offre la possibilità di approfondire la conoscenza della Turchia, dell’Islam non arabo e del medio Oriente. Il tutto in un ambiente davvero unico: come è vero che Istanbul è l’unica città al mondo che unisce due continenti, è vero che si tratta di un ambiente altrettanto unico per la possibilità di dialogo ecumenico, con le altre confessioni cristiane e interreligioso, in modo particolare con l’Islam.
E, come nella secolare tradizione domenicana, studio, preghiera, vita comune e predicazione, vivono fra le mura della casa intitolata ai santi Pietro e Paolo, proprio nella dimensione della porta aperta. Una porta aperta non solo per accogliere, ma anche per uscire, pur con tutta la prudenza che l’essere in un paese musulmano comporta, ma senza che la necessaria cautela si trasformi in un timore eccessivo.
In questo crocevia di storie e di umanità, stanno, magari sottotraccia, ma in maniera evidente, crescendo nuove possibilità di dialogo: un terreno che curato, anche dai frati domenicani, può dare buoni frutti. Per usare le parole dell’arcivescovo di Smirne e frate domenicano, mons. Lorenzo Piretto in una recente intervista: “Questo dobbiamo essere: una presenza significativa, non passiva, vivendo bene la nostra fede, testimoniare la vitalità della chiesa e preparare i cristiani al futuro”.
fra Giovanni Ruotolo