Ringrazio il Signore per il dono della professione solenne. Attraverso un percorso che ha le sue radici ancor prima della mia nascita, nel rapporto misterioso tra me e Dio, ma che si è realizzato coscientemente come l’approfondire di un desiderio, il Signore mi ha portato a compiere con gioia questo passo definitivo di consacrazione a lui.
La sensazione più forte è quella di essere introdotto finalmente, sotto molti aspetti, nella dimensione definitiva che dà senso al mio vivere. Di essere ciò che volevo essere e che è giusto per me essere, ciò che mi permette di guardare alla vita eterna come uno che non solo ha fatto dei propositi, ma ha anche “messo mano all’aratro”.
In giorni come questo ci si sente più del solito avvolti dalla Provvidenza di Dio, da quella cura che – lo sappiamo – in realtà ci accompagna in ogni momento, e specialmente in quelli in cui non riusciamo a sentirla. In ogni caso, questi momenti “nuziali” sono dilatazioni del tempo che rasentano l’assenza di movimento, la stabilità necessaria della vita in sé stessa.
Sono momenti propizi in cui si coglie il senso, l’orientamento. Questo non come una illuminazione da altrove, né come un privilegio, ma come un’accresciuta sensibilità per il reale, di cui sentiamo tutto il peso, il fascino e le implicazioni relazionali. A proposito di questo, le litanie dei santi, cantate durante il rito mentre noi eravamo prostrati, sono un chiaro esempio di quel reticolato di relazioni che è, fondamentalmente, l’unico significato, l’unico piano reale della nostra vita: “e i posti sono / semplicemente persone”.
“San Paolo, san Paolo, ebreo ellenizzato di Tarso, quante lettere scrivevi tu!”. La tua presenza ci è familiare, la tua voce ha guidato Papi, filosofi, travagliati governanti, fondatori di ordini religiosi, persone in traguardi importanti della loro vita, peccatori commossi sul traguardo della morte. Noi non sappiamo come funziona, ma il Signore, quando vuole dirci qualcosa, trova sempre il modo di dircelo. Così, il giorno della mia professione solenne, mi ha tampinato con un brano altrimenti marginale nel Nuovo Testamento, questo brano della 1a lettera a Timoteo di san Paolo: “tu, uomo di Dio, tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni” (1Tm 6,11-12).
E insieme all’incoraggiamento paolino, mi ha fatto pervenire anche la domanda: “Perché?”. Perché dovrei fare tutto questo? Perché ogni cristiano lo deve fare? La risposta può essere una sola, quella di san Tommaso d’Aquino: “Null’altro che te”. Gesù è gioco, e noi siamo gioco in lui. Un gioco serissimo, un gioco che ci strappa dalla morte, un gioco fatto di verità, la bellezza della verità. Verità che è poi ancora relazione, l’intreccio dei corpi “sottili”, come li definisce Tommaso, destino di relazione incarnata.
Al di là delle parole difficili e delle tentazioni di compiacimento speculativo, è vero che le parole di san Paolo, la parola di Dio, ci attrae nella dimensione di un dovere che non è imposto da altro che dalla affezione. Un’affezione – si intende – capitale, perché Colui che ha chiamato me è quello che anche tu devi scoprire. Non è questo il tempo della visione aperta, ma del lasciarsi sedurre.
Nessuno spaventi la definitività della mia scelta, so che sarò accompagnato da Colui che mi chiama. E lo so non per una infatuazione o un’ideologia, né per infantile creduloneria, ma perché effettivamente la nostra vita ha un fondamento, lo ha sempre avuto, un fondamento di luce, e più ci si lascia rasserenare da questa luce, più ne scopriamo le melodie, melodie che non sanno di anonimato, ma di una personalità, che mi ama più di mia nonna. È la personalità di Colui che mi ha creato.
Che cosa ci aspetterà alla fine? Colori, sì, certo, ma soprattutto conoscenza e amore. Niente di più, alla fin fine, di quello che abbiamo qui, se ce l’abbiamo. E se non ce l’abbiamo, bussiamo, chiediamo, cerchiamo, con quel desiderio di vita che fluisce per noi dall’essere conosciuti, amati, creati. Senza questo chiedere, che cos’è la vita? Senza un essere oggetto della volontà di bene di qualcun altro, che cosa sarebbe la vita? E che cos’è la vita se non sentire che molte persone sono oggetto della nostra volontà di bene? Se non è così, rompiamo la scorza!
È il grembo di una madre, è il suo desiderio privo di altri fini, privo di calcoli, di obiettivi da raggiungere per sé, il grembo dell’affetto che contiene gli altri nei propri pensieri, nella tranquilla serenità di una missione che tocca il cuore, l’immagine più chiara – e anche più antica – del predicatore (cfr. 1Tess 2,7-8). Fra’ Lorenzo, sabato, ha fatto bene a scegliere la lettura mariana del Concilio Vaticano II: «La Vergine costituisce quel nobile ideale di amore materno che deve informare la missione apostolica di coloro che nella Chiesa lavorano per la rigenerazione degli uomini» (LG 65).
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