A un certo punto della lettura, si apre un mondo. Papa Francesco, infatti, usa questa espressione: «esplicitare […] il ricchissimo tesoro della Parola». Così, mentre gustavo con piacere le farfalle al pesto, l’ascolto che il priore e il capitolo hanno imposto al refettorio per il tempo d’Avvento diventava un trampolino di riflessione per me e per voi.
Un amico d’un tempo mi riferiva di un prete che utilizzava questo esempio per far comprendere ai bambini quanto fosse ricca la Parola di Dio: «La Parola di Dio è come la Cina». Cosa che risulta essere anche un omaggio al nuovo moderatore provinciale per gli studi teologici.
Ma come immaginare tutto quello che sta al di là di questa metafora? Se da un lato, infatti, con essa affermiamo che non riusciremo mai ad esaurire questa sorgente, dall’altra non diciamo affatto che non si possa attingere. Anzi, è un invito ad attingere con voracità.
E la prima cosa che si fa è soddisfare la sete, i bisogni vitali. E questo, la fede di trovare nella Parola di Dio la risposta non solo alle curiosità dotte, ma anche e in modo soddisfacente ai bisogni primari della vita, è un grosso antidoto al rischio di fare della nostra teologia qualcosa di distante dalla gente. Se infatti viviamo di essa, nel senso che beviamo l’acqua che viene da lei e mangiamo il pane moltiplicato che esce dalle sue mani, e con questo riusciamo a tenere in piedi il nostro pur sempre carneo corpo di frati, allora vuol dire che anche gli altri ne potranno ricevere vita, e senza troppe traduzioni. Diversamente, se la teologia è ciò che serve a sentirci frati, ma per le spese primarie ci comportiamo come se Dio non esistesse, o comunque come se il criterio Dio valesse solo dai coppi in su, allora il nostro è un mestiere che non serve a nessuno.
In labore requies. Attingere alla Parola di Dio può essere riposante? Sì, le parole di Dio sono capaci di risuonare anche nei sogni, dove la volontà si abbandona dolcemente alla seduzione della verità ascoltata. Occorre quindi veramente un cambiamento di prospettiva, come dice papa Francesco appunto nella “Gaudete et exsultate” precendentemente citata, abbandonando ogni residuo di pelagianesimo. Che cos’è il pelagianesimo? Un riporre tutto nello sforzo, come se fosse questo a renderci buoni. No, la carità di Dio si rivela a noi di sua iniziativa ed entra con l’amabilità delle parole nella nostra mente, nel nostro modo di vedere la realtà, nel nostro modo di amare, di festeggiare e di costruire.
In aestu temperies. Soffrire per quanto il mondo sia caldo e desiderare l’ombra del fico, dove gli Ebrei studiavano la legge e attendevano di godere la pace portata dal Messia, è segno di buona salute spirituale. Valorizziamo dunque tutti quei punti in cui la Parola di Dio, la dottrina rivelata apporta uno smorzamento al bruciore del mondo. Non è peccato, ma è l’unica via per una comprensione profonda, chiedere a Dio di darci una parola che migliori la nostra vita presente, rendendola sopportabile. Il criterio dunque non è “dire tutto della parola di Dio senza risparmiare nulla”, perché questo non lo potremo fare mai, ma chiedere tutto ciò di cui abbiamo bisogno a Dio e alla sua rivelazione in Cristo e non “ai calcoli incerti degli accorgimenti umani”.
In fletu solacium. Nel pianto conforto. Dunque al di là di quel velo concettuale che chiamiamo “infinita ricchezza della Parola di Dio” c’è un mondo reale, il regno di Dio, dove abitano i santi, in cui ogni lacrima è asciugata. Ecco i “pascoli erbosi”: “in verdissimi prati mi pasce; mi disseta a placide acque”. Questo, e non un accrescimento delle nostre nozioni culturali, vuole darci Dio attraverso la ricchezza della dottrina della Chiesa. In quel prato c’è l’erba medicinale per ogni nostra tristezza, per ogni nostra difficoltà, perché non ci nutriamo di parole o di idee ma attraverso di esse siamo resi malleabili all’azione di Dio, dei santi e di chi con loro ci attende.
Fra Stefano Prina