Il campanile della vecchia chiesa di San Policarpo (il primo vescovo di Smirne, discepolo dell’apostolo Giovanni) si staglia con la sua originale silhouette davanti al grattacielo dell’Hilton Hotel. Bell’immagine per dire la presenza di una chiesa che viene dai primissimi tempi cristiani in una città così antica (cinquemila anni, almeno) e così lanciata verso il futuro. Ma, a ben vedere…

L’edificio dell’Hilton ha una quarantina d’anni e altri, ben più alti e avveniristici (curvi ad arco, cilindrici, trasparenti) grattano il cielo di questa metropoli dell’Egeo orgogliosamente protesa sul suo mare e sul suo futuro. La vecchia chiesa di San Policarpo costruita nell’Ottocento dai Cappuccini francesi a poca distanza da altre due chiese più o meno della stessa epoca, è invece il simbolo di un mondo che non c’è più: la comunità di cattolici levantini, che orgogliosamente affermava la sua presenza e le sue tradizioni con le sue chiese e i suoi riti, è ormai quasi scomparsa, sopravvive a stento e sempre più si “turchizza”. I discendenti dei vecchi levantini, quelli giovani, non parlano più correntemente e contemporaneamente tutte le lingue che erano l’orgoglio della loro comunità (il francese, l’italiano, il greco, lo spagnolo, l’arabo…) ma soltanto l’aborrito turco e l’inglese che imparano a scuola e viaggiando per il mondo; non si sposano più tra di loro, garantendo la permanenza della “bolla levantina” in cui rinchiudersi, ma sposano dei Turchi e per di più musulmani, almeno quanto all’appartenenza famigliare.

C’è un arcivescovo, che è un frate domenicano, ci sono una dozzina di preti, ci sono delle suore e dei laici molto attivi, c’è una piccola comunità domenicana, qui a Smirne, la Smyrna Fidelis dei Romani. “Fedele” per la sua lealtà a tutta prova all’imperatore, fedeltà riecheggiata anche nella lettera che le viene indirizzata nel libro dell’Apocalisse. È una piccola chiesa ostinata a rimanere al capezzale dei suoi fedeli moribondi e in via di estinzione? A leggere in un certo modo i numeri si potrebbe dire di sì. Ma ci sono altri numeri, e poi non ci sono solo i numeri, e la chiesa, qui a Smirne-Izmir, raccoglie i frutti della sua lunga fedeltà e guarda in avanti.

Se la Turchia adesso sembra conoscere, con il sultanato di Erdogan, una islamizzazione crescente e più o meno forzata, di questo magari ci si accorge a Istanbul ma non certo qui, nella Izmir “infedele” dove la laicizzazione e l’occidentalizzazione dei costumi certo non temono il confronto con le metropoli d’Europa, basta girare per le strade, vedere i negozi e soprattutto gli innumerevoli locali stracolmi di una gioventù vivace e così uguale a quella di Parigi o di Berlino.

Una scatola di cartone usata come tamburo e percossa a intervalli regolari, senza variazioni, ogni cinque secondi, fino alle tre del mattino… È un bambino di neanche dieci anni, proprio sotto le finestre della mia camera in convento, che offre questa presunta esibizione musicale in cambio di qualche spicciolo di elemosina. Al mattino chiedo e scopro che è un bambino siriano, una dei tanti arrivati qui in Turchia a seguito della guerra nel suo paese, chissà se ha famiglia, dicono che c’è un vero racket che li organizza e li sfrutta. Domando se c’è un racket di altro segno che se ne preoccupa e li assiste, nessuno me lo sa dire.

Davide è un bel ragazzo di vent’anni, felpa “Converse” e jeans col risvoltino. È di Pescara ma gli ultimi cinque anni li ha passati in Germania con la sua famiglia, una famiglia che segue il cammino neocatecumenale e si è resa disponibile per la missione, fidandosi della parole di Gesù, lasciando tutto e correndo l’avventura del vangelo. Davide ha finito le superiori e da ottobre vive qui in convento. Ci starà fino alla prossima estate, nel frattempo si rende utile un po’ per tutto. Intanto pensa a che cosa farà “da grande”, guarda la sua vocazione prendere forma e volti. I volti sono quelli della gente che ha incontrato e continua ad incontrare qui: i frati, le due famiglie neocatecumenali che da qualche mese hanno trovato casa e pazientemente offrono la loro preghiera e la loro testimonianza, le due suore italiane che da quarant’anni presidiano la loro scuola e forse, più ancora, i giovani e le giovani che incontra qui in Kibris Sehitleri, la via su cui affaccia il convento e che è un po’, di giorno come di notte, il cuore della movida smirniota.

fra Enrico Arata

(Continua…)