Talvolta alcuni mi chiedono qualche delucidazione su temi liturgici. Non so le mie risposte li accontentano, in ogni caso mi preme dare motivazioni a sostegno di quello che a mio parere bisognerebbe fare, consapevole che in fatto di celebrazione liturgica non ci sono direttamente in ballo delle verità di fede ma modalità di espressione simbolica della nostra fede, modalità nell’esprimere e celebrare la nostra fede. E qui non ci sono verità assolute.
Studiando la storia delle celebrazioni liturgiche, infatti, si vede chiaramente quante e quanto diverse siano state e siano le modalità celebrative, pur celebrando sempre il medesimo mistero. Sacrosactum Concilium (n. 4), dice inoltre che tutte queste modalità (riti) sono di pari valore, compreso il rito romano rispetto agli altri riti. Il quale rito romano non si identifica poi con le celebrazioni papali le quali hanno delle ritualità particolari, che avrebbe poco senso voler imitare, così i pontificali, cioè le celebrazioni dei vescovi. Le celebrazioni papali, in particolare, sono sempre state un unicum, con rituali e sacramentari (messali) propri. Sotto questo punto di vista l’esaltazione di una modalità storica sull’altra ha un valore molto relativo. Basti vedere anche soltanto le riforme liturgiche avvenute, lungo i secoli, all’interno dello stesso rito romano latino. Sarebbe astorico pensare a un rito romano sempre identico, lungo 2000 anni di storia. Un rito romano poi, che soltanto da 1700 anni è latino. Nei primi tre secoli, infatti, anche a Roma come in quasi tutta la cristianità si celebrava in greco. La lingua liturgica cristiana più antica è quella siriaca o aramaica, poi è venuta la lingua greca, nella cui lingua ci è giunto anche il NT, e anche per il primo (antico) testamento si usava la traduzione greca dei LXX. Il latino, in liturgia, entrò a Roma quando si divise l’impero romano in impero d’oriente e impero d’occidente. Da allora l’impero d’occidente fu latino, quello d’oriente rimase greco, abbandonando la lingua comune, koiné, dei primi secoli. Ma mentre nel mondo d’oriente le lingue liturgiche si moltiplicarono, non ultima la versione slava di Cirillo e Metodio, sostenuta dal papa stesso, in occidente l’unica lingua liturgica rimase il latino, fino ai nostri giorni. Ma al di là della lingua, anche in occidente, nel tempo, si diversificarono le orazioni e i riti (romano, gallicano, ispanico, mozarabico, celtico, beneventano, ambrosiano, patriarchino di Aquileia); diversificazioni all’interno dello stesso rito romano, basta scorrere l’evoluzione delle orazioni dagli antichi sacramentari e messali ai messali di oggi, o l’evoluzione degli stessi riti (vedi la varietà degli Ordines romani, fino alla liturgia della “curia romana” del 1200).
Anche nella nostra tradizione domenicana i riti si sono evoluti nel tempo, basta fare anche un semplice raffronto tra la liturgia del cosiddetto “prototipo” del 1200 (pubblicato in parte dal Guerrini nel 1921: Ordinarium…) e i cambiamenti avvenuti dopo la riforma liturgica di Pio X. Quando cinquant’anni fa l’Ordine, nei suoi Capitoli generali e nei suoi Consigli generali, ha scelto di adottare i libri liturgici romani conseguenti alla riforma liturgica del Vaticano II, nel 1974 ha deciso ugualmente di conservare alcuni elementi più caratteristici della nostra consuetudine liturgica, e ne ha stilato una lista, che la Congregazione per il culto ha approvato. Peccato che non tutti conoscano e soprattutto che non tutti nell’Ordine seguano queste indicazioni e non seguano i libri approvati e stampati per l’Ordine a partire dagli anni 80, sia per la Liturgia delle Ore che per il Messale e Lezionario OP, come per gli altri riti. Nel nostro Ordine la liturgia fa parte delle Costituzioni, e le norme date dai Capitoli generali sono legge per noi. Quando celebriamo fuori di queste norme non stiamo vivendo le Costituzioni. In pratica nel nostro Ordine ognuno celebra come vuole, che siano coloro che partendo dalla riforma liturgica del Vaticano II si fanno le loro liturgie personali, sia coloro che si appellano alle celebrazioni prima della riforma. Né nell’uno che nell’altro caso si osservano le Costituzioni, fino a che il Maestro dell’Ordine o i Capitoli generali non cambieranno il nostro modo celebrativo. Altrimenti l’unità è fatta solo di intenti, e talvolta nemmeno di quelli. La forza della missione dell’Ordine sta nella sua unità, anche liturgica: unico Maestro, uniche Costituzioni, unica liturgia. La libertà nell’Ordine non può essere intesa al di fuori di questi margini.
Una caratteristica della liturgia domenicana è quella della semplicità, della essenzialità; la liturgia domenicana non è quella monastica semplicemente, né quella canonicale delle cattedrali, è una liturgia calata nella nostra spiritualità e nella nostra missione, è una celebrazione adattata, come un abito su misura. Le celebrazioni nel nostro Ordine, inoltre, sono sempre state regolate dal cantore, in accordo col priore. Non ci sono mai stati cerimonieri e tanto meno cerimonieri stabili accanto ai celebranti, salvo nei primi tempi di quando uno diventava sacerdote, nel qual caso al novello sacerdote per la celebrazione della messa gli si affiancava un confratello sacerdote più anziano per guidarlo nella celebrazione, un po’ come una scuola guida.

Ciò premesso vorrei rispondere ad alcune problematiche che mi sono state poste.
La prima è sulla messa come sacrificio di Cristo. Mi si dice: “Cristo muore per la nostra salvezza diventando l’agnello sacrificale. Ora a chi è rivolto il sacrificio? A chi Cristo offre il suo sacrificio? Gesù lo offre al Padre. Il sangue versato sulla croce è il prezzo del riscatto che Cristo ha pagato una volta per tutte per la nostra salvezza. Per cui il sacerdote, in persona Christi, ogni giorno nella Messa non offre il sacrificio a se stesso, non dice le parole a se stesso, ma lo rinnova davanti a Dio Padre. Per cui noi tutti insieme dietro il sacerdote, che in quel momento agisce in persona Christi, ci rivolgiamo al Padre rinnovando il sacrificio!”.

Circa questa questione a mio parere occorre completare il discorso sopra riportato perché l’eucaristia non è solo memoria del sacrificio di Cristo ma è anche cena: prendete e mangiate, prendete e bevete. I primi cristiani chiamano l’eucaristia la cena del Signore, certo senza dimenticare che è una cena sacrificale, dove mangiamo un vittima sacrificale: «questo è il mio corpo dato, questo è il mio sangue versato». L’antifona del Corpus Domini, attribuita a san Tommaso d’Aquino, O sacrum convivium, esprime chiaramente questa duplice realtà, della cena e del sacrificio.
Per interpretare correttamente il senso della eucaristia, a mio parere dobbiamo guardare ciò che ha fatto Gesù nell’ultima cena istituendo il memoriale eucaristico, incastonato nel suo contesto, che comprende la lavanda dei piedi e il discorso d’addio. L’eucaristia non è solo sacrificio. Fare la comunione non è accidentale all’eucaristia, ma è essenziale; facendo la sola memoria del sacrificio non abbiamo ancora realizzato pienamente il gesto e il comando del Signore.
È certo che l’attenzione della chiesa primitiva era sulla cena. Poi man mano si è accentuata maggiormente l’offerta, il sacrifico, soprattutto dopo il concilio di Trento per controbattere i protestanti che negavano che la messa fosse un sacrificio. In realtà essi non dicevano, mi pare, che l’eucaristia non fosse memoria del sacrificio di Gesù ma che non era un altro sacrificio, come alcuni teologi affermavano: l’eucaristia è il sacramento dell’unico sacrificio di Cristo (sacramentum sacrifici).
Queste due accentuazioni teologiche, cena e sacrifico, governano anche la posizione dell’altare: se è semplicemente un altare di un sacrificio o se è la mensa del Signore. Nella eucaristia, Cristo guarda il Padre e ci volge le spalle o è in mezzo alla sua comunità come colui che presiede la cena che egli ci offre? L’eucaristia è adorazione o è cena di comunione? È cena di comunione in spirito adorante, per cui per parte mia privilegerei la “forma” della cena che è più comprensiva, e storicamente anche la più antica. Cena del Signore non è una espressione protestante, ma è chiamata così dagli apostoli e da san Paolo. Uno sguardo alla storia farebbe prendere delle posizioni più equilibrate. Su questa linea si è mossa la riforma liturgica e la comprensione dell’altare, che non è solo ara del sacrificio ma anche mensa dei figli di Dio, e roccia dalla quale sgorga l’acqua dello Spirito (vedi Prefazio della dedicazione dell’altare, teologia ancora da sviluppare). L’altare è ancora il segno simbolico più importante nella chiesa: sempre si fa l’inchino all’altare, il sacerdote lo bacia prima e dopo la celebrazione, o si incensa. É simbolo di Cristo prima ancora del crocifisso, entrato solo più tardi. Se vogliamo, il crocifisso è un doppione dell’altare. Diciamo che il crocifisso è una icona, come del resto l’altare.

fra Raffaele Quilotti