Sulla Messa
(prima parte)
In questi momenti difficili, mai sperimentati prima, per evitare assembramenti e il conseguente rischio di contagio da coronavirus, i vescovi italiani hanno deciso di sospendere in tutte le chiese la celebrazione della messa con la presenza del popolo. È una dolorosa privazione a cui ci si assoggetta per il bene comune. I cristiani suppliscono alla partecipazione attiva all’eucaristia in molti modi: vale la pena di soffermarsi a riflettere su questo sacramento, per meglio ricominciare a celebrarlo. Ci aiuta in questa riflessione fra Raffaele Quilotti.
In quarant’anni di scuola di liturgia ho sempre cercato di spiegare il senso delle cose che si fanno, altrimenti un’osservanza semplicemente rubricale delle norme, senza capirne il senso, può essere un atto di obbedienza meritoria, allo stesso modo con cui osservo un ordine del superiore (o del parroco per voi laici) anche se non ne sono convinto; ma in fatto di preghiera (e la celebrazione è una preghiera) un’obbedienza formale non dice niente. Un rito puramente formale non dà gloria a Dio, se non nella intenzione di fare quanto mi è stato detto di fare: in quel caso la mia offerta al Signore è unicamente quella della mia obbedienza. Un giorno mi sono sentito dire da un nostro teologo: nella liturgia non è importante capire, è importante credere. Ed è anche vero, visto che i santi sono diventati santi anche senza aver capito la liturgia, solo credendo, però… La liturgia è una celebrazione sacramentale che usa riti e parole. I riti sono segni, sono una preghiera in se stessi, ma soltanto se hanno un significato teologico. Quando uno vuole fare un rito gli chiedo: qual è il significato che vuoi esprimere? e poi lo spieghi. Se è un rito antico forse non c’è bisogno di tante spiegazioni, ma se è nuovo devi dire perché. Ci sono dunque due cose da tenere presente: primo che la celebrazione è una preghiera; secondo, è una preghiera che si esprime attraverso riti (segni) e parole, più riti (segni) che parole, più non verbale che verbale, se per verbale si intendono le parole. Ora i riti e la parole possono essere fatti o detti in modo significativo, oppure sciatto, incolore, stantio, tirato via. E ci meravigliamo che la gente si annoi, come si annoia di una predica incolore, odi una conferenza che non parla né alla mente né al cuore né alla vita. Una celebrazione può essere significativa o monotona e tirata avanti in modo anonimo (anche per via di un ex opere operato malcompreso). Ad esempio: non si può pronunciare tutto con uno stesso tono di voce; non deve essere una celebrazione affrettata, per far presto; non è una preghiera alla quale i fedeli assistono o al massimo rispondono qualcosa. Li facciamo sentire celebranti i nostri fedeli laici o i celebranti siamo soltanto noi preti? La prima grossa conversione, non ancora avvenuta dopo cinquant’anni dalla riforma, è quella di passare da una celebrazione del sacerdote a una celebrazione della comunità. Ciò non si è ancora avverato se non in parte, anzi c’è stata una marcia indietro; meno male che, cheto cheto, papa Francesco ha ribadito che la riforma non è reversibile. L’apertura di papa Benedetto per vedere di recuperare alcune frange che si erano staccate, alla fine non ha avuto gli effetti desiderati, anzi talvolta ha condotto a dividere le comunità ancora di più, non tanto sul latino e il gregoriano, quanto sul rito antico, come se il rito antico desse più gloria a Dio del nuovo o fosse più ortodosso del nuovo.
La liturgia della Parola
È la liturgia della parola che distingue una messa dall’altra .La sacramentalità della parola. La cena del Signore, se vogliamo, è sempre quella, ma variamente colorata dalla Parola che le dà un diverso valore (dona una diversa grazia) sacramentale. L’eucaristia rinnova, per noi, la grazia, il frutto, l’azione, di quella Parola. La Parola infatti non è letta ma celebrata, proclamata, cantata, è un evento, come quando era nella bocca di Gesù. Quando nella liturgia viene proclamata la parola di Dio è Cristo che parla (Sacrosanctum Concilium, 7), come è Cristo che battezza, che consacra, che perdona i peccati, che dona lo Spirito, che spezza il pane e ce lo dà da mangiare e ci fa bere al suo calice. Ci spieghiamo così perché nella chiesa antica anche il papa riceveva la comunione da un altro, dal diacono. Non c’è self-service nell’eucaristia, c’è solo dono. Quando c’è il vescovo, i sacerdoti dovrebbero ricevere l’eucaristia dal vescovo. Certo in una concelebrazione con tanti sacerdoti questo diventerebbe complicato, ma non dovremmo perdere questo significato. Il vescovo, come l’altare, possono esser rivestiti di vesti d’oro, ma non perché il vescovo o il papa siano dei dignitari, un re, una regina, ma solo perché rappresentano Cristo, essi significano Cristo in mezzo alla sua comunità. I papi e i vescovi l’avevano compreso nell’antico (almeno a parole) quando dicevano di sé:di meindegno tuo servo, servo dei servi.
Come si snoda la liturgia della Parola? Anzitutto i segni. L’assemblea sta seduta, indica l’atteggiamento dell’ascolto. Chi proclama la parola di Dio invece sta in piedi: è un araldo. C’è anche un luogo dell’annuncio, un luogo in rilievo (ambone), un segno fisso nei nostri luoghi di culto, di noi che viviamo attorno alla parola di Dio. Il modo di trattare la parola di Dio è in umiltà e insieme di annuncio, quindi solenne. Alla fine del testo proclamato, dopo una breve pausa si dice: Parola di Dio, Parola del Signore. Chi proclama chiede la benedizione di Dio, e alla fine la comunità acclama rispondendo con una lode a Dio, a Cristo. La parola deve essere annunciata chiaramente, adagio, ben scandita, per poter essere ascoltata. Non si fa teatro, non si declama, si proclama la parola di Dio. Il vangelo viene proclamato con più solennità, non da un lettore ma da un diacono o un sacerdote, in quanto riporta le parole di Gesù. La proclamazione del vangelo è preparata dal canto dell’alleluia, mentre l’evangeliario viene portato processionalmente, incensato e baciato. Anche il libro che contiene la parola di Dio deve avere un suo onore. Fa parte dei segni. Nelle celebrazioni solenni alla proclamazione del vangelo si portano anche due ceri. Nel tempo pasquale c’è accanto all’ambone il cero pasquale acceso.
Tra le letture c’è il canto di un salmo che commenta la lettura stessa. Il salmo non è una lettura, è un canto, occorre un cantore, e il canto ha un suo ritmo, solenne, al quale l’assemblea risponde con un ritornello: il salmo è a forma responsoriale. Il salmo lo si canta. Non può essere la stessa persona che proclama le letture e il salmo, a meno che non si sdoppi quando legge le letture e quando canta il salmo; l’importante è che egli sappia che una cosa è la lettura e una cosa un salmo. Eventualmente uno faccia le due letture e un altro il salmo, ma tutto con altro tono. L’omelia è l’esortazione alla comunità di chi presiede, che spiega e applica alla vita la parola annunciata: può essere fatta dall’ambone o dalla sede.
Due altri segni fanno parte della liturgia della parola, la proclamazione di fede(il Credo)e la preghiera universale che fa diventare invocazione e supplica ciò che abbiamo ascoltato. Non dobbiamo pensare che basti annunciare la parola di Dio, se non chiediamo anche umilmente l’aiuto per saperla vivere. Non basta conoscere.
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