“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”
28 aprile 2019
LETTURE: At 5,12-16; Sal 117; Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31
“Alcuni Greci si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli domandarono: Signore, vogliamo vedere Gesù”(Gv 12,21). Lo stesso apostolo Filippo, nell’estremo incontro con il Maestro durante l’ultima cena, gli domanda: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” e il Signore gli risponde: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”(Gv 14,8-9). Vedere Gesù. Finalmente, dopo le incertezze e gli smarrimenti, gli abbagli e gli sbagli, vedere con i propri occhi quello che, più o meno consapevolmente, si è sempre ricercato e che si intravvede poter essere il fine della ricerca; questo è il desiderio che porta molti, lungo tutta la narrazione evangelica, a cercare Gesù, a volerlo vedere con i propri occhi, ad attendere un incontro che sia risolutivo di un’esistenza fin lì vissuta con insoddisfazione e pena. A volte è la semplice curiosità di rendersi conto di persona di chi è il famoso personaggio di cui tanto si parla, ma più spesso è un desiderio più alto e che risponde a un bisogno più profondo. Desiderio di salute, di bene, di sicurezza; desiderio di vita buona e di fede non più costantemente intaccata dal dubbio: potere verificare e rendersi conto, vedere davvero che non ci si è sbagliati, che quello che ci è stato presentato e ci viene incontro è vero. A lungo si potrebbe ragionare intorno a questo desiderio di vedere, che vuol vedere Gesù (i Greci) per potere, grazie a lui, vedere il Padre (Filippo). Tutto il quarto vangelo può essere letto seguendo il filo del “vedere Gesù”…
“I discepoli gioirono al vedere il Signore”, ci dice questa domenica il vangelo, dopo che il Signore ha finalmente fatto dono della pace promessa, il dono messianico che sorpassa ogni possibile aspettativa, quella pace che solo Gesù può dare (cfr.14,27). Pochi giorni prima, prima della tragedia e del suo sconvolgente e inaspettato epilogo, prendendo congedo dai suoi Gesù aveva loro detto: “Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete” ed essi non avevano compreso. Aveva anche aggiunto: “Voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia” ed essi continuavano a non capire (cfr. 16,16-20). Adesso il velo è stato tolto: vedono e la loro tristezza è svanita, possono finalmente rallegrarsi di quella gioia che nessuno può togliere e che è l’aspetto più eloquente della pace appena donata.
Con questo accenno alla pace e alla gioia che l’incontro con il Risorto offre ai discepoli che finalmente lo “vedono” davvero, per quello che veramente è, potrebbe felicemente chiudersi il quarto vangelo, dopo avere tracciato un itinerario del vedere Gesù che trova il suo definitivo epilogo.
Ma non è così e ancora una volta questo ci dice che non esiste lettura del vangelo che si possa dare per scontata, che sempre un’interpretazione può aprire a un’altra interpretazione, in un processo di intuizione e di avvicinamento al Signore Gesù e al suo mistero che, in questa vita, non avrà mai termine. E così l’apostolo Tommaso interviene a scompaginare il “lieto fine”. Ai suoi compagni che pieni di stupita gioia gli dicono “Abbiamo visto il Signore” acidamente risponde che vuol accertarsi di persona, che non si fida, che solo i suoi propri occhi possono dargli quella prova di cui ha bisogno. La prova gli viene data otto giorni dopo e allora sì che termina l’itinerario credente verso una pieno riconoscimento di Gesù a cui tutto il vangelo di Giovanni ci ha preparato: poter dire insieme a Tommaso “mio Signore e mio Dio”. E ancora una volta una parola viene aggiunta a turbare le nostre interpretazioni. Si tratta della risposta di Gesù alla professione di fede dell’apostolo. È come se il Signore spostasse il suo sguardo da questi a tutti gli altri credenti in lui, in ogni tempo e in luogo: “Perché tu mi hai veduto hai creduto; beati quelli che non mi hanno visto e hanno creduto”.
Il vangelo (quello di Matteo) si era aperto con la proclamazione di otto beatitudini, ed altre vi si erano aggiunte (ricordiamo quella di Elisabetta: “beata colei che ha creduto…”). Adesso il vangelo si chiude con ultima beatitudine. I futuri seguaci di Gesù non avranno bisogno di vederlo per essere pienamente appagati nel loro desiderio di bene, per essere confortati nel cammino verso Dio. Troveranno la loro beatitudine credendo, e questo è più che sufficiente. Ai contemporanei e conterranei di Gesù è toccato di poterlo vedere, ascoltare, toccare, magari di essere guariti e cambiati dall’incontro con lui. Questo è avvenuto e storicamente si è concluso. Ma questo tempo delle origini non va rimpianto nostalgicamente come un’irripetibile età dell’oro. A ogni credente è dato di incontrare Gesù, di vederlo con gli occhi della fede, e di ricevere da lui pace e gioia. Il Signore risorto continua ad essere presente nella comunità di coloro che credono in lui e a dispensare i suoi doni. La lettura degli Atti degli Apostoli, tratteggiando in termini magari un poco idealizzati la vita della primitiva comunità cristiana, ci dice proprio questo: da subito – e da allora per sempre – tutti i credenti in Gesù, radunati nella sua Chiesa, hanno potuto fare l’esperienza benefica della sua presenza e trovare in essa la propria gioia e la propria pace: essere in lui davvero beati.
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