I miei pensieri non sono i vostri pensieri

20 settembre 2020

LETTURE: Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-27a; Mt 20,1-16

La parabola che il Signore narra nel vangelo di questa domenica continua a destare sconcerto, anche presso gli uomini dei nostri giorni, e anche presso coloro che la conoscono. Non solo gli operai che hanno lavorato meno – addirittura una sola ora, contro le dodici di quelli assunti la prima ora –ottengono la medesima paga degli altri; ma alla lamentela di coloro che si considerano vittime di un’ingiustizia, viene risposto: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio?».

Una spiegazione di questa parabola enigmatica è quella che riferisce la vicenda dei diversi operai a quella dei popoli che hanno ricevuto la rivelazione di Dio: la ricompensa è il Regno, è Cristo stesso. Vano è accampare presunti privilegi che si fanno dipendere dal tempo in cui si è ricevuto l’annunzio: ciò vale innanzitutto per i Giudei, a cui Gesù rivolge le sue parole. Spesso, nei racconti evangelici, viene indicata questa tensione nei confronti dei diritti accampati da coloro che sono eredi dell’Antica Alleanza (cfr. ad es. Gv 8,39; Mt 3,9).

Si può proporre la stessa interpretazione a proposito di quelli che rivendicano una fedeltà di antica data, a fronte dei convertiti dell’ultima ora. Di fronte al ladrone che, crocifisso dal suo male e dopo una vita di peccato, chiede a Cristo di portarlo nel suo regno, non è raro sentire i mormorii della turba di coloro che ritengono di aver meno da farsi perdonare e più da pretendere per il loro servizio.

La spiegazione più convincente che mi sia capitato di sentire, si presenta attraverso una similitudine semplice, fornita in un incontro per ragazzi. Il frate chiamato a dar ragione della sconcertante parabola a un uditorio certo poco raffinato, ma anche per questo più immediatamente esigente, individuò un paragone sportivo immediatamente fruibile dall’assemblea: supponiamo che uno tra voi – disse – riceva l’invito ad allenarsi con un grande campione di calcio alla mattina presto; che un altro di voi si aggiunga a mezzogiorno, e che un altro ancora riesca ad aggregarsi solo l’ultima ora, nel tardo pomeriggio. Chi è il più fortunato fra questi?

La prospettiva viene in questo modo rovesciata: si tratta di un servizio che in realtà è – potremmo dire, con riferimento a Mt 11,29-30 – un giogo leggero, che in realtà ristora colui che lo compie. La vigna è immagine della Chiesa e la chiamata al servizio è la chiamata a farne parte: anche il servizio in essa, per quanto duro, è compimento della propria vocazione, realizzazione della propria personalità più vera e profonda; colui che serve i tralci della vera vite, compie innanzitutto un servizio a se stesso. Anche questa spiegazione, tuttavia, andrà quantomeno completata. La spiegazione, così come è posta dall’arguto educatore, presenta un punto debole di fondo, e fa forza su un capovolgimento che di per sé nel vangelo di questa domenica non troviamo – almeno, non esplicitamente affermato. Nella parabola l’accento è infatti posto sul servizio, e sul confronto fra questo e la ricompensa; in nessun modo questo servizio è presentato come gradevole: è un lavoro da salariati, che «hanno sopportato il peso della giornata e il caldo».

Si possono allora fare ancora due osservazioni. Innanzitutto, la chiave per interpretare la parabola è fornita nella prima lettura, e in particolare nel passo in cui il Signore, per bocca del profeta, chiarisce che «i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie». La giustizia di Dio va oltre quella degli uomini. Non che questa non sia di per sé giustizia; ma vi è una misura che le sfugge, e che non può pretendere di ridurre alle proprie dimensioni: «quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri». Come potrebbe essere altrimenti? La contabilità che la vita ci pone innanzi pare sempre clamorosamente errata: a gesti nobili, a esistenze dedite alla giustizia, addirittura all’amore, corrispondono spesso terribili prove; e d’altro canto, come le Scritture spesso ammoniscono, per gli empi sembra a volte che non ci sia sofferenza, «sano e pasciuto è il loro corpo» (Sal 72,4). Il radicale ottimismo della fede dei cristiani ci porta ad affermare che questa oscura trama, apparentemente senza senso, cela in realtà un disegno meraviglioso, che ha i suoi punti nevralgici proprio là dove l’occhio della natura vedrebbe il nodo: l’occhio della fede ci induce invece a ritenere che quel nodo sia una croce, che partecipa della gloria della croce di Cristo, «nostra unica speranza in questo tempo di passione» – come recita un antico inno della Settimana Santa.

Una seconda osservazione è suggerita dal confronto fra la parabola proposta questa domenica, e quello che appare un Leitmotiv nelle pagine dei vangeli sinottici: pensiamo solo all’episodio del giovane ricco (Mt 19,21-22), che – con le spiegazioni successive date ai discepoli – appare non a caso immediatamente prima del testo di oggi. Ciò che conta, ciò su cui fare forza, non sono le nostre opere, né tantomeno il tempo per cui le abbiamo esercitate: il nostro lavoro, per quanto duro, non potrebbe mai accampare diritti sull’infinita ricompensa che il Signore garantisce ai suoi operai. Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio (cfr. Mt 19,26): è per grazia che siamo salvati, un denaro a ciascuno – anche a chi è venuto all’ultima ora, perché fino ad allora nessuno lo aveva preso a giornata (cfr. Mt 20,7).

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